Quel demone lo conosci. Non ha voglia di aspettare. Chiede giustizia, subito, perché quelle morti non hanno un senso. Non si può precipitare da una funivia, una domenica di maggio, per l'incuria e l'avidità degli umani. Non c'è bisogno di spendere troppe parole. I colpevoli stanno lì, il movente è chiaro e puzza di denaro, alla giuria dell'opinione pubblica basta dare in pasto i nomi e le loro storie. Solo che i processi non si fanno in piazza, non ancora, non del tutto.
Il demone non bestemmia solo nel ventre degli altri. È anche dentro di te. È basso istinto. È voglia di giudicare e di voltare pagina, quasi per rassicurarti, perché se ci sono i colpevoli ti sembra che questa esistenza raminga abbia un fine. C'è qualcosa di metafisico nella necessità di dare un nome alla colpa. Tutto torna, e se torna nello spazio di un «topic», quando la tragedia non è ancora invecchiata, è ancora meglio. Ci si può fare il segno della croce e buttare la chiave.
Questa volta, con il monte Mottarone come testimone, sembrava tutto facile. Il pubblico ministero ha seguito gli indizi e segnato le prove. L'incuria c'è stata. Il caposervizio della funivia ha ammesso di avere bloccato il freno. «Tanto il cavo non si spezza. Ce ne vuole prima che si rompa una traente o una testa fusa». Lo aveva fatto altre volte e il caso o il destino erano stati clementi. Confessa tutto e dice che non lo ha fatto da solo. Altri sapevano, e chiama in causa il direttore del servizio e il gestore. Non volevano perdere la prima domenica di incassi dopo le chiusure per pandemia. Non ci potevano essere dubbi: il denaro come principio della colpa. Anche questo, in fondo, è rassicurante. È un castello ideologico che si tiene senza fatica e magari è davvero così.
I tre vengono arrestati e le indagini si muovono senza scosse. Il pm è in buona fede. Fa il suo lavoro. Semmai è la piazza che ha già emesso il suo verdetto. La narrazione funziona ed è evidente. Non c'è da dare spazio ai dubbi. Quello che però giornali, televisioni e chiacchiere da bar non si aspettano sono i dubbi del giudice per le indagini preliminari. La sorpresa è il lavoro e il giudizio del gip. Non tutto appare chiaro come sembra.
Il caposervizio ha confessato, ma non ci sono indizi per accusare gli altri due. Il non potevano non sapere non vale. Non valgono neppure i soliti sospetti. Serve qualcosa di più concreto. È così che il direttore e il gestore vengono scarcerati. Il caposervizio finisce agli arresti domiciliari. Questa chiaramente non è la fine della storia. Le indagini vanno avanti e ci potrebbero essere altre sorprese.
La decisione del giudice ci ricorda però qualcosa che dovrebbe essere normale e invece spesso non lo è. La carcerazione preventiva va usata con buon senso. Non è la norma. Il tempo della giustizia non ha la stessa foga della discussione pubblica. Non basta farsi un'opinione. È un lavoro che va avanti per tentativi ed errori, e le teorie dell'accusa vanno confrontate con i fatti. È una ricerca e la «verità dei tribunali» si costruisce al di là di ogni ragionevole dubbio. Il pm e il giudice sono due mestieri diversi. E poi c'è quella cosa lì, che per molti è solo retorica e invece resta un principio di civiltà: l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Non è una debolezza. È la forza del diritto. È il tentativo, certe volte sovrumano, di tenere a bada il nostro demone. È la scelta di sfuggire all'istinto della vendetta veloce. È qualcosa di cui in fondo dovremmo essere orgogliosi.
La cosa strana è con non lo siamo più. Ci pesa e abbiamo cancellato Cesare Beccaria dalla lista dei nostri «santi». È successo, giorno dopo giorno, da quando i tempi della giustizia sono diventati quelli dello spettacolo. Qui e adesso e così sia.
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