Pubblichiamo ampi stralci del libro-intervista a Giuseppe Scopelliti Io sono libero.
Sentire il rumore metallico delle chiavi e delle porte di ferro che si chiudono alle tue spalle ti fa avvertire una sensazione di distacco dal mondo reale. Come se si perdesse il filo conduttore della vita e si accedesse ad una dimensione sconosciuta. E poi l'incognita: la paura e l'ansia generate da un «circuito», quello del carcere, che appare come un abisso profondo che vorresti superare, ma che non riesci a misurare. Entrando in questo mondo, ho subito ricordato le mie visite al cimitero, quando andavo a pregare per i miei cari: da vivo camminavo tra i morti, percorrevo i sentieri in mezzo ai sepolcri con l'idea di dover continuare il racconto della vita non appena fossi uscito da quel camposanto. Ora, invece, mi sentivo seppellito senza esser morto, murato ma ancora vivo.
Non saprei come spiegarlo meglio. Certo, la morte è una condizione definitiva, a differenza del carcere. Ma, è quello che ho pensato: a una sepoltura in vita. (...)
Quello che si trascorre in carcere è un tempo completamente diverso. È come se le lancette dell'orologio fossero mosse da un ritmo altro. Lentissimo. Ovattato. Estraneo. Il contrario di quello che siamo abituati a vivere quotidianamente
Il carcere segna. Inevitabilmente, impone un'esperienza di vita non prevista né programmata (almeno nel mio caso), assolutamente negativa. Sotto un altro punto di vista, invece, amplifica la sensibilità delle persone, porta ad attribuire un valore particolare alle cose semplici ed essenziali della vita: quelle a cui spesso non si pensa, come lo spazio, il tempo, il silenzio, le ombre, certi gesti. È come se ci si riappropriasse di un pezzo di sé smarrito. (...) Dapprima (ho provato) una sorta di pace interiore scaturita, forse, dalla consapevolezza che, dopo tante battaglie e innumerevoli sfide vinte con lealtà e dignità, nello sport e nella politica, questa era la sconfitta più amara. (...) Calunnie, denigrazioni, un processo mediatico costante, anche dopo la sentenza di primo grado. Un accanimento infinito. Ho cominciato a rendermi conto che quegli attacchi non potevano essere ricondotti a uno, due o tre «avversari», a pochi antagonisti. (...) Ho avuto la sensazione, poi divenuta certezza, che qualcuno da tempo stesse progettando la mia eliminazione politica. Evidentemente «il sistema» temeva il mio consenso popolare, il patrimonio umano, consolidato nei decenni, che si andava sempre più rafforzando indipendentemente dai miei incarichi istituzionali. (...)
Ho pensato a come certa politica pur di colpire me non si sia curata di «spaccare» un'intera comunità, di «atterrare» una città e una regione. Ma, posto che anche io ritengo che ad un torto subìto si risponda con la Giustizia, nessun sentimento di vendetta avrà il sopravvento su di me. Niente di quello che è accaduto mi ha incattivito e continuerò a guardare il mondo con gli stessi occhi di prima, con lo sguardo di chi spera.
(...) Il momento più angosciante l'abbiamo vissuto la sera prima, quando mai avrei immaginato, da padre, di dover salutare mia figlia per andare in carcere. Ricordo che lei, elegantissima, scendendo le scale di casa nostra per recarsi ad una festa di compleanno, mi disse: «Papà sto uscendo, vieni a prendermi più tardi?». La fermai e le dissi di aspettare perché avrei dovuto parlarle. Le spiegai che gli avvocati, per telefono, mi avevano anticipato l'esito della sentenza definitiva della Corte di Cassazione. Non dimenticherò mai il suo sguardo, il suo pianto, le sue braccia raccolte sul petto. Ci chiudemmo nella sua stanza. Parlammo a lungo di come affrontare il distacco e il periodo in cui saremmo stati lontani. Rimasi con lei tutta la sera. Sapevo che la separazione sarebbe stata lacerante. Man mano che la notizia si diffondeva, casa nostra diventava meta di una incessante processione di amici. Quando rimanemmo di nuovo soli, tornai da Greta. A lei mi sarei consegnato per tutta la notte in un abbraccio, unico, interminabile. Ad ogni risveglio, la preghiera e la promessa: «Papà ti voglio bene». Poi mi rassicurava: «Ce la faremo».
(...) Per Gilda è diverso. S'è trovata, a soli tre anni, a dover fare a meno di suo padre. D'improvviso le sono mancate le mie carezze, prima di andare a dormire, gli abbracci la mattina, le passeggiate sul lungomare di Catona. (...)
Cosa mi manca? I miei affetti più intimi, ovviamente. Mia moglie, le mie bambine, mia madre novantenne che, ad oggi, ancora non sa che mi trovo in carcere. Dapprima le hanno detto che ero fuori per impegni politici, poi all'estero per ragioni di lavoro. Per lei, vista l'età, sarebbe stato un trauma insuperabile, troppo vicino alla perdita di mio padre, con cui ha condiviso tutta la vita. Ci ha creduto? Non ne sono convinto. Ma preferisco che abbia il dubbio anziché la certezza di una verità che per lei sarebbe insopportabile. E in questi mesi, tutte le persone che l'hanno incontrata, opportunamente istruite, hanno avuto cura di conservarle il dubbio, per proteggerla. (...) Attendo di poter dire a mia madre la verità, ma solo quando terrò strette le sue mani nelle mie e potrò asciugarle le lacrime con i miei baci, proprio come lei faceva con me un tempo.
(...) Barbara ha un'intelligenza superiore alla media. Ha preferito sempre restare nell'ombra e in questa triste circostanza, invece, ha fatto emergere tutto il suo carattere, le sue grandi doti. Lei la forza. Lei le parole infinite. Lei il coraggio e la dignità invincibili. Una delle cose che mi rimarrà più impressa, di questi momenti difficili, e di assordante silenzio personale, è lo sguardo di Barbara nell'istante in cui le ho comunicato la notizia della condanna. (...) Il giorno dopo la condanna, il 5 aprile 2018, è stata lei a svegliarmi. Erano le 6.45. (...) Lei era solita farmi trovare una frase di Platone, il suo filosofo preferito, ogni volta che dovevo affrontare una situazione importante, o partecipare a un evento decisivo. La scriveva su un pezzetto di carta, lasciandola in un punto della casa dove avrei certamente posato gli occhi o le mani; vicino agli oggetti quotidiani, o sul mio cuscino. L'aveva fatto anche quel giorno. L'ultimo, prima della detenzione.
Con due biglietti che aveva messo nella mia valigia e di cui mi ero accorto chiudendola. «Chi commette un'ingiustizia è sempre più infelice di colui che la subisce», recitava il primo; «nessun male può accadere ad un Uomo giusto, sia durante la vita che dopo la morte», ammoniva l'altro.
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