Alla fine, pure le lacrime. Sicuramente una rottura emotiva per la tensione e la fatica delle ultime 48 ore, quando per ottenere le firme importanti la Cop26 è durata un giorno in più. Ma se l'interpretiamo come la frustrazione di uno show che doveva andare in un modo e invece si è schiantato sulla realtà, allora proprio quelle lacrime potrebbero essere il simbolo del principale risultato positivo, il discrimine tra ciò che è stata questa conferenza per 26 anni e ciò che sarà d'ora in avanti. Un quarto di secolo sprecato a litigare se fissare l'asticella a 1,5 o 2 gradi, mentre le emissioni quasi raddoppiavano. Nel 1995, prima edizione, 5,7 miliardi di esseri umani producevano 23 miliardi di tonnellate di CO2. Lo scorso anno 7,8 miliardi di abitanti ne hanno prodotto 38. L'umanità è aumentata di un terzo e le emissioni di due terzi. Vuol dire che la CO2 aggiuntiva è riconducibile solo in parte al maggior numero di persone, anche perché le popolazioni che allungano la vita e fanno più figli sono quelle che emettono meno CO2 pro-capite. Vuol dire che mentre i cittadini occidentali riducevano le emissioni, i poveri del mondo le aumentavano per avere una vita dignitosa. 25 anni di conferenze per dare sfogo ai sensi di colpa dei popoli ricchi, cullando l'illusione che potessimo tutti salire sull'arca di Noè e salvare il pianeta. Il risultato è stato Greta: in piazza, nella finanza e nel marketing delle imprese, leste a cavalcare l'onda.
Poi a Glasgow i fatti hanno sfondato i cancelli e sono entrati nella conferenza, con Sharma in lacrime sul palco. All'inizio è stata l'assenza della Cina che ha attirato più riflettori che se fosse andata, dicendo anche ai più distratti che un quarto delle emissioni sono sue e che intende proseguire col carbone. Oggi giornalisti e commentatori ammettono, non senza infastidito disappunto, che il Dragone pesa molto più del Suv del vicino. Non è un grande risultato, questo? Alla fine l'India, che ha offerto la sua firma in cambio di una diminuzione (phase down) invece di uno stop (phase out) al carbone. Il cui vero significato è: dopo la Cina ci siamo noi e non siamo gli ultimi. Perfino in Europa, le associazioni industriali francese, italiana e tedesca hanno alzato la voce in difesa del settore automobilistico dagli attacchi della Commissione, dopo anni di colpevole silenzio: una coincidenza o hanno fiutato il vento di Glasgow?
La realtà ha fatto irruzione alla Cop26 affermando che la lotta al clima è una cosa seria e richiede un approccio serio, altrimenti si peggiora la situazione. Esempio ne sia l'energia che costa molto di più di un anno fa in tutte le regioni del mondo. Bolletta più cara significa maggior ricorso al carbone e comunque meno crescita, ossia meno persone che escono dalla povertà. Sì, perché dietro i consumi, che noi ricchi satolli vorremmo bucolicamente abbandonare, ci sono lavoratori che sfamano la famiglia. Il maggior costo è riconducibile anche al calo decennale degli investimenti nelle fonti tradizionali da parte delle società energetiche. Succede quando l'industria è pilotata dalla finanza, che a sua volta risponde alle mode della piazza.
La lezione di Glasgow è di avere maggior rispetto per gli altri, cominciando a capire cosa significherebbe per loro
«decarbonizzazione». Allora forse capiremmo cosa significa pure per noi e soprattutto chi tra noi ne pagherebbe il conto. Onestamente, nessuno sa se riusciremo a frenare il riscaldamento, ma nel caso sarà malgrado non grazie a Greta.
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