Fini, Montecarlo e il fango di "Repubblica"

La richiesta di una condanna a otto anni per Gianfranco Fini e la compagna Elisabetta Tulliani, formulata ieri l'altro al termine di un iter processuale durato quasi quindici anni, ripropone all'attenzione uno dei casi giornalistici più clamorosi della storia recente

Fini, Montecarlo e il fango di "Repubblica"

La richiesta di una condanna a otto anni per Gianfranco Fini e la compagna Elisabetta Tulliani, formulata ieri l'altro al termine di un iter processuale durato quasi quindici anni, ripropone all'attenzione uno dei casi giornalistici più clamorosi della storia recente, ricordato come quello della «Casa di Montecarlo». Era un inizio estate del 2010 quando questo Giornale scoperchiò con le sole sue forze giornalistiche, intendo senza l'aiutino di procure e servizi segreti, lo scandalo dell'appropriazione da parte della famiglia Fini-Tulliani di un bene, una casa a Montecarlo, lasciato in eredità ad An.

Perché riparlarne così diffusamente oggi? Beh, perché a distanza di tanti anni ancora colleghi di altri giornali invidiosi, disinteressati alla verità e carichi di pregiudizi ieri lo ha fatto Filippo Ceccarelli, grande firma di La Repubblica contro ogni evidenza processuale non demordono dal classificare quello scoop - frutto della bravura e della tenacia di un gruppo di colleghi allora capitanati da Gian Marco Chiocci (oggi direttore del Tg1) - nella categoria «macchina del fango». Alludendo così a un presunto mandante e a una regia extra-giornalistica.

A inventare questo termine dispregiativo «macchina del fango» fu all'epoca Giuseppe D'Avanzo, principe dei cronisti giudiziari, anche lui grande firma de La Repubblica, che avrà avuto anche le scarpe grosse ma evidentemente, visto come è andata a finire, il cervello poco fino o comunque più propenso a elaborare teoremi che a cercare verità. Il teorema di D'Avanzo, morto nel 2011, era semplice nella sua follia: qualsiasi cosa scrive il Giornale è fango, perché quelli sono servi di Berlusconi; solo noi di La Repubblica siamo uomini liberi. Liberi di difendere acriticamente Gianfranco Fini, che ha avuto il coraggio di fare la scissione dal centrodestra e farsi un partito suo, Futuro e libertà, che alleato alla sinistra farà cadere il governo delle destre.

A leggerle oggi, dopo che Fini e la Tulliani hanno confermato ogni dettaglio dell'inchiesta firmata da Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica, le parole usate da D'Avanzo - oltre che false e offensive - rivelano da che parte stavano i produttori di fango giornalistico. Ne riporto alcune: «Il presunto scoop sulla presunta proprietà da parte di Giampiero Tulliani della casa di Montecarlo è una montatura. Fini ha qualche prova e la ragionevole certezza che le informazioni distruttive che ogni giorno vengono pubblicate da il Giornale controllato dal presidente del Consiglio, sono fabbricate in un circuito che fa capo direttamente a Silvio Berlusconi». E ancora: «Il giornalismo, diventato tecnica sovietica di disinformazione, alterato in calunnia, non ha nulla a che fare con queste pratiche che non sono altro che un sistema di dominio, un dispositivo di potere. Uno stesso soggetto, Silvio Berlusconi, ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di Paesi amici e non alleati. Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica».

Queste sono state le parole e l'analisi del principe dei giornalisti, figuratevi quelle di duchi e marchesi impegnati a fare a gara a chi insultava di più il Giornale. D'Avanzo era membro ascoltato e ricercato di una corte malata e moralmente corrotta, come poi documentato dai vari scandali che hanno travolto l'insano rapporto tra magistrati e giornalisti.

Perché D'Avanzo e La Repubblica si misero alla difesa senza se e senza ma di Gianfranco Fini? Un'ipotesi di risposta la si può trovare nel racconto fatto dall'ex capo della magistratura antiberlusconiana Luca Palamara nel libro «Il Sistema»: «Quando si parla di un patto tra magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità: Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un'inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui Fini era il numero due dopo Berlusconi. Abbiamo con lui più di un incontro nei quali ci rassicura che con lui presidente della Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati».

Conoscendo come vanno le cose nel nostro mondo, trovo impossibile che i colleghi di Filippo Ceccarelli non conoscessero queste trame. Più facile che le abbiano assecondate mitragliando tutti i giorni su il Giornale per salvare Fini. A loro era altrettanto sfuggito che in effetti, sull'onda del clamore delle nostre notizie, un'inchiesta venne formalmente aperta dalla procura di Roma. Aperta e chiusa nel giro di tre mesi con un'archiviazione-lampo di cui nulla, guarda caso, era trapelato se non a cose fatte. L'unica inchiesta che ha resistito al segreto della storia fu fatta personalmente dal procuratore di Roma Giovanni Ferrara che, coincidenza, un anno dopo si dimise con qualche mese di anticipo sulla pensione per essere nominato in quota Fli da Gianfranco Fini, sottosegretario all'Interno del governo Monti.

Caro Ceccarelli, non ti viene il sospetto che eri tu a La Repubblica e non io a il Giornale a sguazzare nel fango? Perché adesso ti dico in verità com'è andata. Un certo giorno Livio Caputo, vecchia firma de il Giornale in pensione, manda dal suo buen retiro in Costa Azzurra la seguente mail alla nostra segreteria: «Cena con amici, qui si dice che Fini avrebbe una casa segreta a Montecarlo, c'è chi l'ha visto, indirizzo: Boulevard Princesse Charlotte 14». Fortuna vuole che quel messaggio venga aperto e letto da Maurizio Acerbi, storico segretario di redazione col fiuto sempre attivo. Seconda fortuna: quando Acerbi me la sottopone, mi trovo in un raro stato di grazia, quindi faccio l'unica cosa giusta: attivo Gian Marco Chiocci, uno che se lo trovi carico dura più di qualsiasi Duracell. Tutto qui, il resto è giornalismo, compresa la caccia dei nostri cronisti, di fronte al negare di Fini, al negozio che gli aveva venduto la cucina Scavolini immortalata in una foto dell'appartamento monegasco.

Niente spioni, nessun magistrato, puro lavoro di scavo. E quando Berlusconi lesse la prima puntata mi chiamò di primo mattino più preoccupato che contento: «Ma sei sicuro? Qui se non è tutto vero disse siamo proprio nella merda». Nei giorni successivi ogni sera mi chiamava sornione: «Direttore, novità?». Sapendo che non si sarebbe tenuto un cecio in bocca stavo sul vago, diciamo il minimo sindacale che si deve a un editore presidente del Consiglio. Poi certo, a cose ben avviate ci sono saltati su un po' tutti: politica, faccendieri, spioni, eccetera. Ma questo non era più un problema nostro. Vittorio Feltri che l'ha protetta e i colleghi che l'hanno portata avanti meriterebbero una medaglia per questa inchiesta. Se tutte quelle avviate da La Repubblica fossero nate con questo spirito, fatte con questi mezzi e concluse con questo risultato, beh il giornalismo potrebbe vantarsi di esistere.

Sappiamo che non è così, non sta in piedi sostenere che una «macchina del fango» porta alla confessione di un presidente della Camera. Prendetene atto, chiedeteci scusa e mi permetto: imparate come si fa questo mestiere con lealtà e trasparenza.

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