Ancora una volta il centrodestra decide di non fare un torto ai suoi trascorsi recenti. E si presenta all'appuntamento referendario in ordine sparso. Secondo alcuni, un'occasione persa. Non tanto perché le ragioni del «No» sono trasversali e maggioritarie nei tre partiti della coalizione. Quanto perché se Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia si fossero compattati per tempo contro il quesito referendario - magari politicizzando l'appuntamento - sarebbe stato davvero possibile «dare una spallata al governo». Con il grillismo che a quel punto avrebbe inevitabilmente imboccato il viale del tramonto e il Pd alle prese con una furibonda faida interna per ottenere lo scalpo di Nicola Zingaretti.
Il tema, però, non è stato mai oggetto di confronto tra i leader del centrodestra, che si sono mossi autonomamente e partendo comunque dall'assioma che vincerà a mani basse il «sì» al taglio dei parlamentari. Impossibile, insomma, fermare l'onda anti-casta. Troppo complicato provare ad argomentare che il taglio lineare di deputati e senatori porta un risparmio risibile ma, di contro, rischia di compromettere il funzionamento del Parlamento (in particolare delle commissioni del Senato) e la rappresentatività delle regioni di medie dimensioni a Palazzo Madama. Meglio, insomma, seguire la corrente e farsi trascinare. Più o meno silenziosamente.
Così stanno facendo, seppure con sfumature molto diverse, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Se interrogati in proposito, infatti, entrambe rivendicano coerenza e si dicono favorevoli alla sforbiciata. Tutti e due, però, pur essendo in giro per comizi da settimane, si sono ben guardati dal farsi paladini del «sì». Anzi, non toccano l'argomento a meno che non siano esplicitamente chiamati in causa. Una scelta dettata anche dai tanti mugugni all'interno dei loro partiti.
Nella Lega non si contano più, anche perché il combinato disposto tra il calo dei sondaggi e il taglio di deputati e senatori fa temere per una forte riduzione dei posti disponibili per chi aspira ad essere rieletto. Salvini lo sa bene e alla fine gli fa anche comodo che leghisti di peso come l'ex presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi o il responsabile economico del Carroccio Alberto Bagnai si schierino apertamente per il «No». C'è chi sostiene che pure Giancarlo Giorgetti sarebbe per votare contro, ma l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio è silente da qualche tempo.
Più lineare la situazione dentro FdI. I teorici del «No» ci sono, ma la Meloni gli ha chiesto di non esporsi in dissenso per non creare confusione. Non è un caso che Guido Crosetto, uno dei fondatori del partito, dopo essersi pubblicamente espresso contro un referendum che «si sta caricando di significati superiori al taglio dei parlamentari», ormai da una decina di giorni abbia deciso di non tornare sull'argomento. E non è l'unico che in FdI non condivide la linea scelta dalla Meloni. Il suo approccio è certamente coerente, ma sono in tanti che nel partito avrebbero preferito quantomeno la «libertà di coscienza», sia perché scettici nel merito sia perché un plebiscito per il «Sì» non farà che rafforzare il governo e resuscitare politicamente il M5s. Per non parlare del fatto, spiega un parlamentare vicino alla Meloni, che «la vittoria del Sì allontanerà ancora di più le elezioni anticipate». In tutti i partiti, infatti, saranno molti gli uscenti che con il taglio non ritroveranno più il loro scranno. Fatta eccezione che per FdI, a cui oggi i sondaggi attribuiscono il triplo dei voti del 2018, una delle ragioni per cui la Meloni è riuscita a «sedare» il dissenso. La leader di FdI, peraltro, considera un vantaggio non essere costretta a riempire le liste con una classe dirigente troppo nuova e che non conosce a fondo, cosa che sarebbe costretta a fare se i posti in Parlamento restassero quelli attuali (945 contro i 600 post taglio).
A completare il quadro di un centrodestra in ordine sparso c'è Forza Italia. Con Silvio Berlusconi che ha definito il referendum un «atto demagogico», lasciando però libertà di voto.
E tanti sono gli azzurri schierati apertamente per il «no». Una lunga lista, che va da Renato Brunetta a Gianfranco Rotondi, passando per Giorgio Mulè, Simone Baldelli, Andrea Cangini, Osvaldo Napoli, Deborah Bergamini, Giuseppe Moles e altri ancora.
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