Wolfgang Münchau, per anni editorialista principe del Financial Times, ha pubblicato la settimana scorsa il suo ultimo libro sulla Germania. Il titolo è semplice e definitivo: «Kaput». A essere morta è l'economia tedesca, perché secondo Münchau quella che il Paese sta attraversando non è una fase transitoria o una crisi passeggera, ma una sorta di declino terminale. Nulla di drammatico, in fin dei conti anche il Giappone sta senza troppi traumi vivendo la sua terza età industriale, ma ci sono tutte le ragioni per pensare alla fine di un modello economico che aveva le sue radici nel Wirtschaftswunder, il miracolo economico di 70 anni fa.
Il problema di Berlino, dice Münchau, accompagnato da uno stuolo di analisti, non è solo la competitività: «Non si tratta di come fa le cose, ma di ciò che fa». Tutto il sistema economico appare orientato in una direzione poco compatibile con il mondo del futuro. L'esempio più evidente è quello del settore automobilistico. Per anni gli ingegneri tedeschi hanno continuato a pensare in termini di meccanica e vecchi motori, senza fare caso a software e batterie. A tempo debito i tecnici della Mercedes avevano registrato una serie di brevetti su cui avviare la progettazione di auto elettriche. La casa di Stoccarda ha deciso di puntare sul sicuro («l'elettrico è un giochetto per signorine», era la battuta), alcuni di quei brevetti sono utilizzati oggi da Tesla.
Basta guardare a numeri e indicatori per scoprire che in molti settori, di solito quelli più innovativi, la Germania è rimasta indietro. È il caso di tutto il mondo digitale, in cui i confronti sono impietosi perfino se la pietra di paragone è l'Italia. Nei Paesi dell'Ocse il 35% dei collegamenti Internet avviene attraverso fibra ottica; il nostro Paese è al 22%. Ma la Germania è a meno della metà della quota italiana e supera di poco il 10%. A dominare indiscusso quasi dappertutto è il vecchio cavo di rame.
Per decenni Berlino ha fatto leva su due dipendenze che hanno fatto prosperare il sistema industriale. Da una parte l'energia russa a basso prezzo, dall'altra la fame cinese per macchinari e impianti «made in Germany». Ora con Putin non si fanno più affari e i cinesi, da remissivi clienti, si sono trasformati in agguerriti rivali sui mercati di tutto il mondo. L'élite tedesca, dai partiti politici agli imprenditori, ha da sempre difeso un modello economico neo-mercantilista, con un saldo positivo della bilancia commerciale che per anni ha viaggiato intorno all'8%. Erano i tempi in cui la Germania era l'«Export-Weltmeister», campione mondiale di export. Ma il meccanismo, per le sue caratteristiche intrinseche, non poteva durare all'infinito.
Nel frattempo la politica ha fatto i suoi danni: mentre il gas finiva di scorrere dalla Russia, i Verdi hanno preteso la chiusura dell'altra fonte energetica a buon mercato rimasta, le centrali nucleari, spente nell'aprile del 2023. Le oculatissime politiche di bilancio hanno ridotto al lumicino gli investimenti pubblici deprimendo i consumi interni. Con il risultato, tra l'altro, che i celebrati treni tedeschi viaggiano sempre più spesso in ritardo e, come in Italia, i ponti delle autostrade scricchiolano.
La poco gloriosa fine dei tre anni di «coalizione semaforo» con crisi di governo e prossime elezioni, segna ora una discontinuità. Ma è difficile possa cambiare le cose in tempi brevi. Per la prima volta, due giorni fa, il probabile vincitore, il democristiano Friedrich Merz, ha accennato alla possibilità di attenuare il cosiddetto «freno al debito», la palla al piede della spesa pubblica.
Ma il riferimento è rimasto allo stadio di una generica possibilità. Del resto non si sa nemmeno con chi i democristiani potrebbero governare. I naturali alleati del partito liberale nei sondaggi sono a quota 4% e potrebbero non entrare nemmeno in Parlamento.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.