Giulio Regeni, i genitori in Senato accusano: "È stato un omicidio di Stato"

A 14 mesi dalla morte del ricercatore italiano a Il Cairo, i genitori di Giulio Regeni sono tornati in Senato per ripetere l'accusa "è stato un omicidio di Stato" e chiedere alle autorità italiane verità e giustizia

Giulio Regeni, i genitori in Senato accusano: "È stato un omicidio di Stato"

I genitori di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto, sono in conferenza stampa al Senato per ribadire la loro accusa: "La morte di Giulio è stata un omicidio di Stato".

Da 14 mesi Paola e Claudio Regeni esigono che lo Stato faccia luce sull'omicidio del figlio, il ricercatore italiano dell'Università di Cambridge rapito, torturato e assassinato al Cairo. Chiedono verità e giustizia, ma, anche a causa della mancata collaborazione delle autorità egiziane, non hanno ancora ottenuto nessuna delle due.

L'appello dei genitori

"Abbiamo avuto rassicurazioni dal premier Gentiloni. Continuiamo a confidare nelle nostre istituzioni - dice Claudio Regeni Palazzo Madama - Non solo chiediamo che il nostro ambasciatore non torni al Cairo ma ci auspichiamo che altri paesi, europei e non solo, facciano lo stesso".

"Papa Francesco il 28/29 aprile andrà in Egitto per una visita storica. Noi siamo sicuri che non potrà in questo viaggio non ricordarsi di Giulio", prende così la parola la madre del ricercatore, durante la conferenza stampa al Senato dal titolo "La morte di Giulio Regeni: un omicidio di Stato".

Paola Regeni racconta: "Sono stati 14 mesi surreali. Noi siamo una famiglia normale catapultata in questa situazione. Non possiamo abbassare mai la guardia perché abbiamo scelto di essere dentro le cose. Per avere verità per Giulio dobbiamo agire, non basta proclamare "verità per Giulio" e poi la bolla si sgonfia".

"Abbiamo diritto alla verità per la nostra dignità ma anche per guardare negli occhi a testa alta i tanti giovani che stanno seguendo questa vicenda e ci stanno scrivendo - insiste la donna - Pochi giorni fa si è celebrato l'anniversario dei Trattati di Roma, ma se non cerchiamo la verità cosa insegneremo a questi ragazzi, che sono già della generazione post Erasmus, dei valori dell'Europa?".

"Ci chiedono spesso di mostrare una foto di Giulio. Abbiamo pensato che sarebbero foto inedite in occidente perché quello che hanno fatto a Giulio forse non lo hanno mai fatto neanche ad un egiziano. Quindi abbiamo pensato che una foto andava mostrata, questa", dice Paola Regeni mostrando l'immagine di un murales raffigurante il figlio dipinto da alcuni writer egiziani a Berlino. Nel dipinto si vede anche un gatto, "Il simbolo dell'Egitto ferito" dice la madre, e la scritta in arabo "ucciso come un egiziano" (GURDA IL VIDEO).

L'impegno delle istituzioni

"Da parte dell'Egitto, nonostante gli spiragli annunciati e gli impegni presi, possiamo dire che quello che prevale è uno stato di inerzia", accusa il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani del Senato, auspicando a sua volta che il governo italiano continui a non inviare il Egitto il nostro ambasciatore richiamato nei mesi scorsi.

Prende la parola anche l'ex presidente della Repubblica, Gorgio Napolitano, che sulla morte di Giulio Regeni scrive in un messaggio: "l'impegno deve continuare in tutte le forme possibili, giovandosi dell'esemplare rigorosa e sobria sollecitazione e collaborazione dei familiari dei Giulio che accrescono così l'autorità morale di ogni ricerca e iniziativa di parte italiana".

Questa mattina il senatore a vita ha incontrato i genitori del ricercatore scomparso, parlando di "una turpe violenza" e di una lunga "teoria di sordità e complicità, di torbide resistenze all'accertamento della verità e di ufficiali dissimulazioni da parte egiziana". Per Napolitano le autorità italiane, invece, "si sono fortemente adoperate, col pieno appoggio delle nostre istituzioni democratiche, per poter giungere a una piena ricostruzione dei fatti e ad una conseguente contestazione di responsabilità a quanti, tra rapimento, torture e sevizie ed infine brutale assassinio di Giulio Regeni dovranno essere perseguiti e duramente sanzionati".

Gli avvocati egiziani

Gli avvocati egiziani incaricati dalla famiglia di Giulio Regeni per far luce sulla morte del ricercatore italiano non hanno mai ricevuto i fascicoli sul caso dalla Procura generale del Cairo. "Gli avvocati con il mandato del padre di Giulio non sono stati ancora autorizzati a ricevere il fascicolo. L'ultima richiesta risale al 21 dicembre 2016", ha detto Ahmed Abdullah, consulente legale della famiglia Regeni e presidente della Ong Coordinamento egiziano per i diritti e la libertà (Ecrf), arrestato all'alba del 25 aprile scorso e rilasciato dopo 130 giorni di carcere. "Nel 2016 ho trascorso quattro mesi e mezzo in carcere (...). Questo è un chiaro segnale del regime che cercare la strada della verità per Giulio è una linea rossa che non si deve superare", ha ammonito Abdullah in un messaggio letto durante la conferenzain Senato. "La prigionia non ha indebolito il mio desiderio di trovare tutta la verità, non quella falsa e di comodo", ha aggiunto.

Le indagini

Il 3 febbraio 2016 veniva ritrovato, lungo la strada che collega Il Cairo ad Alessandria il corpo massacrato di Giulio Regeni, scomparso già dal 25 gennaio. Sul corpo evidenti segni di torture. Da allora una lunga e complessa indagine ha fatto la spola tra Egitto e Italia senz mai arrivare alla verità. La procura di Roma crede che dagli apparati della National Security egiziana e dagli agenti del Dipartimento investigazioni municipali del Cairo - almeno una decina tra polizia e servizi segreti le persone coinvolte nell'inchiesta - siano arrivate, negli interrogatori effettuati dai magistrati del Cairo, innumerevoli falsità nel corso delle indagini.

Dopo oltre un anno di indagini, seguite in Italia da polizia dello Sco e carabinieri del Ros, la procura di Roma è tornata, il 15 marzo scorso, a chiedere verbali di interrogatori - ne sono arrivati cinque, ma ne mancano altrettanti all'appello - e atti dell'indagine che l'autorità giudiziaria egiziana ha raccolto tra mille false piste. La rogatoria partita da Roma a metà marzo, e diretta all'autorità giudiziaria del Cairo per provare a raccogliere nuove prove indispensabili per fare chiarezza sull'omicidio, però non ha ancora avuto risposta.

Le false piste egiziane

In questi 14 mesi sono state tante le false piste percorse durante le indagini: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, con il passare delle settimane si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l'aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte.

Il 24 marzo del 2016 anno arrivò l'ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c'erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. Dopo mesi di ricerche sui tabulati telefonici, gli inquirenti hanno trovato i collegamenti tra le due piste che vedono coinvolti agenti della National security e Dipartimento investigazioni municipali del Cairo. È in quelle telefonate che è ancora celata la verità sulla morte di Giulio.

Gli sviluppi

Intanto, sono almeno tre i passi in avanti, forse decisivi, fatti di recente dagli inquirenti di Sco e Ros che indagano sulla morte del ricercatore friulano, e proprio da queste nuove certezze parte l'ultima rogatoria spedita da Roma al Cairo nella quale la procura chiede ai colleghi egiziani una serie di verbali degli interrogatori di esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi coinvolti nella tragica vicenda di Giulio. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco, che coordinano l'indagine italiana sul caso, chiedono eventuali dossier compilati dalla National security su Giulio, e video registrazioni oltre a quella, già nota, dell'incontro con il rappresentante del sindacato degli ambulanti che è stata diffusa a gennaio.

Le certezze

Chi indaga è convinto che Giulio sia stato attenzionato da polizia e servizi egiziani non per un breve periodo, come ammesso dalle autorità del Cairo, ma per almeno due mesi prima di essere rapito, seviziato e ucciso.

Inoltre dopo una serie di indagini sui tabulati telefonici effettuate in Italia, appare chiaro il collegamento tra gli agenti che si occuparono di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti egiziani coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi il 24 marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l'omicidio di Giulio (in casa di uno dei banditi vennero trovati i documenti del ricercatore).

La terza certezza di chi indaga è legata agli ultimi terribili giorni di vita del ricercatore: il luogo doveva essere idoneo a porre in essere, lontani da occhi indiscreti, quelle atroci torture i cui segni rimasero sul cadavere di Giulio. Non poteva trattarsi di una casa, e, secondo chi indaga, solo un ambiente sicuro, di un apparato pubblico, poteva garantire le caratteristiche indispensabili per gestire il sequestro durato una settimana senza esser visti, né sentiti.

La causa dell'omicidio

Appare ormai certo che Giulio è morto per gli studi che faceva, per quella ricerca sul campo cui lavorava con determinazione e serietà, che lo ha messo in contatto con persone che ne hanno segnato il tragico destino. Il video girato nel dicembre del 2015 da Mohammed Abdallah, il responsabile del sindacato ambulanti con il quale il giovane era entrato in contatto, e diffuso nel gennaio scorso, dimostra non solo che il ricercatore era attenzionato dalla polizia, ma che, poco prima della sua morte, qualcuno provò a incastrarlo.

Abdallah nel video proponeva di usare a fini personali, in modo illegale, soldi che Giulio, grazie a una fondazione britannica, voleva far arrivare al sindacato.

Forse fu proprio il rifiuto di Giulio a segnarne il destino: forse, quando Mohamed Abdallah capì che non avrebbe ricevuto per sé almeno una parte di quelle diecimila sterline, decise di denunciare Giulio per accreditarsi con la National security come un informatore adeguato.

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