I cervelli emigrati all'estero: "Italia devi svegliarti"

Si fa presto a dire “cervelli in fuga”: ilGiornale.it vi racconta gli italiani che ce l'hanno fatta (all'estero)

I cervelli emigrati all'estero: "Italia devi svegliarti"

“Una volta arrivato a Londra ho avuto l'occasione di capire cosa mi piacesse fare nella vita, probabilmente grazie alla sensazione di avere la possibilità di fare quello che vuoi anche se non sei nessuno e non conosci nessuno. In Italia mi sentivo in trappola, senza un futuro e questa sensazione l'ho notata anche in altri appena arrivati qui. Molti pensano di non valere nulla, arrivano qui disperati con ottime lauree in mano e pronti ad accettare di lavare i piatti pur di avere uno stipendio sicuro”. Le parole di Marco Bocci, geologo, aiutano a capire lo stato d'animo di molti “cervelli italiani” fuggiti all'estero. E che all'estero trovano la loro strada.

Non è una novità assoluta. Il nostro Paese ha sempre esportato in giro per il mondo i migliori talenti. L'illuminista toscano Filippo Mazzei raggiunse la Virginia e divenne grande amico dei primi presidenti degli Stati Uniti. Fu proprio Mazzei a suggerire a Thomas Jefferson di aggiungere “la ricerca della felicità” come diritto fondamentale nella Dichiarazione d'indipendenza. Antonio Meucci, mentre a Cuba lavorava come tecnico di teatro, ebbe la geniale intuizione di creare un sistema per trasmettere la voce a distanza: l'antenato del telefono, il cui brevetto poco dopo gli venne rubato da Alexander Graham Bell (fu solo nel 2002, a 113 anni dalla morte, che il Congresso degli Stati Uniti riconobbe Meucci come unico inventore del telefono).

I nostri ragazzi escono dalle università con un'ottima preparazione. Questo dato emerge inequivocabile dai “cervelli italiani” fuggiti all'estero che ilGiornale.it ha interpellato nelle ultime settimane.Tutti sono d'accordo su un punto: la formazione che hanno ricevuto è buona e non hanno nulla nulla da invidiare ai loro colleghi, anzi... spesso è vero il contrario, nel senso che avvertono una certa superiorità (culturale) di partenza.

Un altro aspetto che emerge in modo netto è questo: l'Italia non sa o non riesce a valorizzare i propri talenti. Per varie ragioni. La principale è la mancanza di meritocrazia. Nulla di nuovo sotto il sole, si tratta di un male atavico del Belpaese. Però sentirselo ricordare dai nostri migliori giovani connazionali che, una volta arrivati all'estero, trovano tutt'altra musica (un sistema dove il merito - e solo quello – premia le persone) lascia capire quanta strada debba ancora fare il nostro paese prima di potersi dire “normale”. Meritocrazia non vuol dire fare solo dei bei discorsi con cui gonfiare il petto promettendo il cambiamento. Contano i fatti. E i numeri.

Abbiamo raccolto le testimonianze di diversi giovani che vivono e lavorano all'estero, o che vi hanno fatto una significativa esperienza: in Francia, Portogallo, Spagna, Lussemburgo, Irlanda, Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti e Australia. Sono giovani impegnati nel campo della ricerca e dell'università, o anche in ambiti professionali di vario tipo, dalla biologia marina all'informatica, dal giornalismo alla finanza applicata ai programmi di sviluppo dei paesi più arretrati. Esperienze stimolanti che nessuno degli interpellati si è pentito di aver fatto. Anzi, sono tutti strafelici e ben lieti di aver avuto questa opportunità lavorativa e di vita. Questo ci fa pensare che a volte non trovare spazi nel nostro paese ci induce a tirare fuori il meglio di noi pur di conquistare le soddisfazioni che meritiamo. Non è un atteggiamento autoconsolatorio, cerca solo di fotografare la realtà.

Accanto all'emigrazione per “fame” e disperazione (che esiste ancora, ma in misura ridotta) c'è quella di chi cerca, all'estero, una piena affermazione di sé, una valorizzazione, umana e professionale, che da noi stenta a trovare. E se una volta i nostri connazionali emigravano per poter stare meglio, andando a fare i lavori più umili in giro per il mondo, oggi esportiamo “cervelli”, persone ben preparate e colte, in grado di fornire un valore aggiunto importante ai paesi che li accolgono e li integrano. Persone il cui merito viene riconosciuto e valorizzato. In molti casi il cosiddetto “ascensore sociale” si concretizza partendo da un volo aereo: quello usato per trasferirsi in un altro paese. Ma tutto questo non va visto con vittimismo. Se non fossimo noi italiani ad emigrare, portando le nostre capacità e il nostro know-how laddove serve, lo farebbero (e già lo fanno) i giovani di altri paesi.

Le riflessioni sull'Italia dei giovani cervelli fuggiti all'estero che abbiamo raccolto sono molto interessanti. Ci aiutano a capire le difficoltà del nostro Paese, le strettoie burocratiche che comprimono all'inverosimile le nostre potenzialità. Lacci e lacciuoli, arretratezze culturali e organizzative, mancanza di organizzazione, gravi carenze manageriali. Sono questi i problemi dell'Italia. E non sono solo problemi politici. È tutto il Paese che soffre e arranca.

L'input per il cambiamento deve partire dall'alto, pensano alcuni. Può essere. Ma l'esempio che ci arriva dai nostri giovani all'estero è che il cambiamento parte da noi, dal nostro metterci in gioco e sfidare le difficoltà per plasmare, con le nostre mani, un futuro migliore.

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