Salara è un paesino di neanche duemila abitanti, seduto sulla riva del Po, ed è da lì che viene Rino. Ha 19 anni, lavora per il Consorzio di Bonifica Padano ed è un mago con gli escavatori. Ne ha due in dotazione ma uno non funziona più ed è in manutenzione a Castelmassa, un paese lì vicino. Sull`altro, un Fiorentini FB 35 da 350 litri di cucchiaio della pinna, è seduto da due giorni e da due giorni non mangia e non dorme. Perché su quella gru Rino Negri da Salara si sta giocando la vita e quella di migliaia di persone, di vecchi, di donne e di bambini. Perché su quell`angolo di terra dove Rino scava senza sosta, l`ansa di Bergantino, tra Mantova e Rovigo, sta arrivando uno tsunami alto 8 metri e Polesine sei chilometri sono il punto più fragile e pericoloso dei 158 che portano il Po, attraverso il Polesine, al mare. Sono i giorni di metà novembre del 1951, settant`anni fa, e il Polesine sta per conoscere la più spaventosa alluvione del dopoguerra. Ma se il Grande Fiume sfonda lì a Bergantino l`acqua non divora solo il Polesine ma si abbatte anche su Padova e Verona, si scaglia sull`Adige, sposta il corso dei fiumi, ridisegna il Veneto, si mangia tutto quello che trova. E Rino scava come se non ci fosse un domani. Perché forse un domani non c`è.
Sono sei giorni che piove e tutti sanno che il Mostro sta per arrivare. Lo sa per primo il sindaco di Castelnovo Bariano Edoardo Biancardi che riceve l`ordine dalla Prefettura di abbandonare al più presto la zona, di scappare via con la popolazione tutta il più velocemente possibile. Biancardi sa che non c`è speranza, il Genio e l`Esercito sono tutti dislocati a San Benedetto Po, sul mantovano, perché lì gli argini sono più bassi, il Polesine è un fortino senza soldati, nessuno li verrà a difendere, nessuno li verrà salvare. Per questo Biancardi decide in fretta e senza esitazione. Non scapperà, resterà lì: a combattere il mostro, costi quel che costi. Perchè se il Mostro sfonda lì è una catastrofe, se sfonda lì non si salva più nessuno. Chiama tutti i sindaci della fascia Po, da Melara fino a Calto, Castelmassa, Ficarolo, Bergantino, crea una task force con chi ci sta, mobilita chi non vuole scappare. Ma lui da solo non basta per trascinare gente smarrita e spaventata. Biancardi è un sindaco comunista, ha presa sugli ultimi, ma ha bisogno di don Giovanni, il parroco della chiesa di Sant`Antonio, il suo nemico numero uno, per convincere tutti. C`è da scongiurare l`Apocalisse e don Giovanni non si tira indietro.
Così duemila persone corrono sull`argine per tentare l`impossibile, un piccolo esercito di contadini, operai, suore, falegnami, guidato da due generali Peppone e Don Camillo votati all`impossibile. C`è da costruire una muraglia di sacchi pieni di sabbia: per impacchettarne uno da 50 chili ci vogliono sei persone, ne fanno 75mila in 12 ore, tremila persone lavorano come se fossero quattrocentomila. Creano con l`aratro il basamento della corolla, cioè le fondamenta della trincea, rinforzano la curva con pali e fascine. É l`inizio della battaglia. Si lotta sui minuti e sui centimetri, armati di vanghe, di badili, di mani, se falliscono la furia delle acque se li porterà via. Sanno che la loro è una sfida con la morte. Sull`ansa di Chiavichino, centottanta gradi pericolosissimi, che segna il confine tra Castelnovo Bariano e Bergantino si decide il destino di migliaia di persone. Per quattro giorni il coraggio di quel manipolo di eroici incoscienti non conosce pause, settantacinquemila sacchi alzano l`argine di un metro e venti, lungo sei chilometri di terra, lavorando a filo dell`acqua che sale e della nebbia che ingoia gli uomini. «Era uno spettacolo esaltante e terrificante - raccontava Biancardi - ma ci faceva sentire dei piccoli Davide contro Golia». Tutto e fragile e definitivo: se un solo sacco cade si apre una falla ed è la fine. «Uno sforzo immane di coesione, di solidarietà, di abilità, di competenze, di organizzazione» spiegherà sempre Biancardi. Sono decisivi acquaioli e battifango, l`ultimo gradino della scala sociale, l`ultimo lavoro del mondo, gente che va per le campagne a controllare i livelli dei fossati, ma che conosce meglio di un ingegnere come si comporta il grande fiume. Biancardi requisisce poi tutti i camion delle giostre di Bergantino, li spedisce a prelevare sacchi allo iutificio di Lendinara e al magazzino idraulico di Badia Polesine, la sabbia la danno i campi.
I centimetri dell`acqua sono la vita e l`acqua si ferma a metà dell`ultimo sacco: non ce ne sono altri. L`argine rompe a Occhiobello, trenta chilometri più a est, dove nessuno tenta di fermare il Mostro: «Il Polesine è un lago di 70 chilometri per venti entro cui crollano le case - racconta la Settimana Incom - 150mila ettari di terreno allagato, di case liquefatte, di raccolti perduti, centinaia di morti, scomparsi, feriti, migliaia in fuga, 100mila profughi, 200 miliardi di danni».
Il Po scaglia il 40% della sua portata sul Polesine, 8 miliardi di metri cubi d`acqua in tre direzioni quasi parallele, se avesse rotto a Bergantino la portata sarebbe stata dell`80 per cento, uno tsunami alto il doppio, 16 miliardi di metri cubi. «Le conseguenze sarebbero state infinitamente più disastrose - scrive Biancardi - nessun palmo di terra sarebbe sopravvissuto all`acqua».
Al sindaco Edoardo Biancardi è dedicata una via a Castelnovo Bariano, di don Giovanni non si sa più niente come di quell`esercito di ombre sbucate dal nulla e che nel nulla rientrarono dopo aver domato il Mostro.
Rino dopo quelle notti senza sonno ha lavorato per una vita nel Consorzio di Bonifica, ha girato l`Italia con le sue gru, nove anni dopo si è sposato, ha avuto due figlie, Cristina e Tiziana, se ne è andato nel 2007 a 75 anni. In casa non ha mai parlato di quella storia. Gli è bastato, con una gru, costruire il domani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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