Uccise la moglie dapprima strangolandola con un cordino e poi, sciogliendo i resti nell'acido. A distanza di 13 anni dall'omicidio di Lea Garofalo, Carlo Cosco, il marito killer, ha ottenuto il permesso di tornare a casa per fare visita alla madre anziana. L'uomo è tornato a Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro (Crotone), scortato dagli agenti della polizia penitenziaria, circa un mese fa. Lo rivela oggi il Corriere.it.
L'omicidio di Lea Garofalo
Lea Garofalo, originaria di Petilia Policastro, fu uccisa dal marito il 24 novembre del 2009, a Milano. Cosco, all'epoca vicino agli ambienti della 'ndragheta, si vendicò della moglie dopo alcune denunce che la donna aveva sporto contro di lui. Lea aveva deciso di prendere le distanze dal compagno, intenzionato a intraprendere la "carriera" da boss a tutti costi. I due, al tempo, vivevano nella città meneghina e avevano una figlia poco più che adolescente, Denise. La donna, risucchiata suo malgrado nella vortice della malavita, decise di rivelare agli inquirenti i traffici illeciti del marito diventando un collaboratore di giustizia. Cosco non le perdonò l'affronto. Così, quando la moglie tentò di riallacciare i rapporti per via della figlia, si vendicò nel modo più brutale possibile: dapprima la strangolò, poi le diede fuoco e infine sciolse i resti nell'acido. Le ossa furono gettate in alcuni tombini di San Fruttuoso, a Monza, e ritrovate anni dopo il delitto. L'omicidio fu commesso in complicità con altre quattro persone. Carlo Cosco fu condannato all'ergastolo.
Il ricordo
La notizia del permesso premio di Cosco ha scuscitato molta indignazione tra gli abitanti di Pagliarelle, dove Lea è ricordata come una vittima della mafia. "Era una donna fiera", racconta Vincenza Rando, legale della donna e vicepresidente nazionale di "Libera", l'associazione contro le mafie, in una intervista a Il Giorno. "Leggeva tutto, - continua l'avvocato - si informava, voleva sapere. E si infiammava in un attimo, come quando la chiamavano 'collaboratrice di giustizia' e lei urlava: ma io non ho fatto niente, io sono una testimone!". "Libera" fu l'associazione che sostenne Lea nella sua battaglia ma non riuscì a fermarla quando decise di incontrare il marito. "La pregai di non farlo.- ricorda l'avvocato Rando -Le mandai l'ultimo messaggio mentre era in treno diretta a Milano: 'Sei partita davvero?'.'Sì, sono a Piacenza'. "cendi subito, ti vengo a prendere'". Lea rispose: "Stai tranquilla". Fu il suo ultimo suo messaggio. "Aveva deciso, - dice il legale - e oggi so che l'unico modo per fermarla sarebbe stato legarla. E forse non sarebbe bastato". Denise, la figlia di Lea, testimoniò contro il padre decidendo successivamente di entrare nel programma di protezione. Oggi quella ragazza è diventata una donna adulta ma non dimentica il coraggio di sua madre.
Lo ha fatto per l'ultima volta lo scorso 19 agosto: "Non ho mai parlato di mia madre come avrei voluto, - ha scritto Denise in un messaggio fatto recapitare all'associazione "Progetto di Vita" -e non ho mai amato chi ha cercato di idealizzarla. Lei era umanamente imperfetta, ma ha dato la vita per permettermi un futuro dignitoso. Aveva una risata liberatoria. Come se ridendo potesse liberarsi dai suoi dolori, e oggi io vivrò per lei".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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