Non fu un delitto di mafia, l'ho uccisa in un raptus. Questa è la versione che questa mattina ha fornito - o almeno provato a fornire - ai giudici Carlo Cosco, il principale imputato per la morte di Lea Garofalo, ex collaboratrice di giustizia, ammazzata a Milano nel novembre 2009. Cosco, ex marito della Garofalo, in primo grado è stato condannato all'ergastolo insieme a cinque complici. Nel corso del processo d'appello, uno dei complici si è pentito e ha fornito una lunga e dettagliata ricostruzione, spiegando come l'omicidio della Garofalo fu una vendetta lungamente preparata e andata in porto dopo diversi tentativi infruttuosi. Mandante, dice il pentito, era l'ex marito Cosco, trafficante di droga e esponente della 'ndrangheta, per punire Lea della sua scelta di collaborare con lo Stato. Oggi Cosco ha ammesso davanti alla Corte d'appello di avere ucciso la Garofalo, ma ha cercato di negare la premeditazione. Il delitto sarebbe avvenuto dopo che la donna aveva minacciato di non fargli più vedere la figlia Denise.
"Non avrei mai voluto ammazzare la madre di mia figlia", ha sostenuto Cosco, in quello che è apparso un tentativo improbo di limitare i danni, evitando almeno la condanna all'ergastolo. Ha anche sostenuto che nell'estate 2009 aveva riallacciato i rapporti con la donna, "abbiamo avuto anche rapporti intimi". L'obiettivo, dice, era riavvicinarsi "nell'interesse di nostra figlia". Delle dichiarazioni che la donna poteva avere fatto alla magistratura dice di non essersi mai preoccupato, "cosa poteva raccontare, al massimo che trafficavo in droga". "Non ho mai fatto parte della 'ndrangheta", ha affermato.
In questo quadro, l'omicidio della donna viene presentato da Cosco come poco più che un incidente, avvenuto durante una visita ad un appartamento di piazza Prealpi dove pensava di ospitare madre e figlia per le vacanze di Natale. "Li é scattato qualcosa, Lea si è messa a dire "adesso la casa ce l'hai, allora io non me ne vado più". "Come non te ne vai?" Mi ha detto un po' di brutte parole, "non ti faccio più vedere Denise"... Io non ci ho visto, le ho tirato un paio di pugni, l'ho buttata per terra, sbattuta con la tesa. Usciva sangue. Venturino (il pentito, che nega di essere stato presente, ndr) si mette a dire, sei pazzo, cosa hai fatto? Eh, lei mi ha dato una spinta, non ci ho visto più, non so cosa mi ha preso in testa, è successo quello che non doveva succedere.
Poi ho preso un lenzuolo nell'armadio, ce l'ho messa dentro, con un paio di stracci ho pulito il sangue, ho messo tutto dentro il lenzuolo, c'era la borsa, ho preso i due telefoni, li ho messi in tasca , ho legato il lenzuolo e ho fatto un paio di nodi. Ho detto a Venturino, vedi di chiamare Curcio Rosario e ti fai dare una mano, la togliete di qua.
Io sono andato a casa a rilassarmi un po', ero ancora tutto agitato, poi sono andato in via Montello (la casa occupata che era il fortino dei clan, ndr) , ricordo che c'era la partita... C'era mio fratello Sergio, gli ho detto é successo questo, così e così, l'ho uccisa. Vedete come dovete fare per fare sparire il corpo. Lui mi ha detto: vai a consegnarti. Io non sono andato a consegnarti perché non volevo perdere mia figlia Denise". "Se organizzavo l'omicidio come dice la procura io adesso non sarei qui", ha concluso Cosco: come dire che se fosse stato tutto pianificato, sarebbe riuscito a organizzare il delitto senza venire mai scoperto.
Su quanto avvenne dopo, quando i complici distrussero brutalmente il corpo della Garofalo, dandogli fuoco e sezionandolo, non gli sono state fatte domande.
Adesso é in corso il controinterrogatorio da parte del procuratore generale Tatangelo, che sta contestando a Cosco le numerose inverosimiglianze della versione fornita questa mattina, che contrasta sia con la versione del "pentito" Venturino ma anche con numerosi altri elementi emersi durante le indagini. Ma Cosco insiste sulla sua versione: "Non odiavo Lea, era la madre di mia figlia".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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