Un Leone d'oro per il ruggito addomesticato di Benigni

Roberto Benigni aggiunge nella sua bacheca un'altra decorazione, aggiudicandosi il Leone d'Oro alla carriera, assegnato dalla Mostra del cinema di Venezia.

Un Leone d'oro per il ruggito addomesticato di Benigni

Roberto Benigni aggiunge nella sua bacheca un'altra decorazione, aggiudicandosi il Leone d'Oro alla carriera, assegnato dalla Mostra del cinema di Venezia. Un riconoscimento quasi obbligatorio per un attore e regista che è tornato da Hollywood con tre statuette vinte grazie al suo film più contestato, La vita è bella. Era il 1997. Per alcuni, Benigni aveva realizzato una favola inadeguata, perché edulcorata, sull'orrore dell'Olocausto. Per altri, tra i quali i membri dell'Academy, La vita è bella era una favola toccante, resa ancora più disperata dal suo umorismo, solo all'apparenza consolatorio.

Comunque sia, Benigni, oltre al Leone d'oro, può vantare: dieci lauree e un dottorato honoris causa; tre Oscar; mezza tonnellata di David di Donatello; il Grand Prix della giuria al Festival di Cannes; un'altra quarantina di riconoscimenti internazionali. È anche Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana e può appuntarsi sul petto la Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte. Una carriera straordinaria per un comico «toscanaccio» che cantava l'Inno del corpo sciolto e conosceva il primo successo nei panni di un impreparato critico cinematografico, ai tempi de L'altra domenica di Renzo Arbore. Poi arrivò il cinema d'autore (Marco Ferreri e Federico Fellini), ma anche quello popolare, con Massimo Troisi o in solitudine. Nel frattempo, Benigni entrava e usciva dagli studi della Rai, saltava addosso a Raffaella Carrà, saliva sul tavolo di Enzo Biagi. Fino a quando non ritenne opportuno ricalibrare il suo profilo e la sua immagine pubblica. L'attore comico cedeva il passo al regista che legge la Commedia di Dante. Ed eccoci qua.

Benigni ha ottenuto un successo così «indiscutibile» che non si può evitare di discuterlo, senza nulla togliere all'artista: non si vincono Oscar per caso e comunque tre minuti di Cantico dei Cantici letto (bene o male, non importa) da Benigni valgono il canone Rai più delle centinaia di ore dedicate a talk show demenziali.

Ripartiamo dal Leone d'oro assegnato con queste parole: «Sin dai suoi esordi - ha sottolineato il direttore Alberto Barbera -, avvenuti all'insegna di una ventata innovatrice e irrispettosa di regole e tradizioni, Roberto Benigni si è imposto nel panorama dello spettacolo italiano come una figura di riferimento, senza precedenti e senza eguali». Non c'è dubbio. È interessante forse vedere in cosa consista l'aspetto «irrispettoso di regole e tradizioni» di Roberto Benigni: non è paradossale che un artista trasgressivo abbia la cantina piena di premi? L'outsider non dovrebbe essere, appunto, fuori dai giochi invece di vincerli tutti?

Secondo Edmondo Berselli, Benigni rappresenta «la trasgressione consentita, il sovversivismo spettacolare dedicato al popolo medio, genitori e figli, cugini e parenti. Era il giullare che irrompeva nel format televisivo del sabato sera e cominciava a straparlare di sventrapapere e di cetrioli, di gnocca e patacca, perché il gusto di Robberto per le anatomie genitali è sempre stata una sua peculiarità, e poi baciava sulla bocca l'algida Olimpia Carlisi a Sanremo, minacciava di afferrare per le parti basse Pippo Baudo, invocava Wojtylaccio, manometteva una Raffaella Carrà spaventata e complice, saltava sulle scrivanie del telegiornale, cantava tutto allegro quando sento Berlusconi mi si sgonfiano i coglioni e, di tanto in tanto, forse per contrappasso culturale, si metteva a recitare tutto d'un fiato una cantica dantesca, per la gioia delle professoresse di materie letterarie e dei loro presidi» (Venerati maestri, Mondadori).

Il giullare Benigni smitizza il potere, ma non tutto il potere: Berlinguer, infatti, è l'amore suo. Il comico, dunque, come incarnazione di una tra le anime della sinistra... E qui il discorso si fa veramente ampio e prescinde dalla figura di Benigni stesso.

Il progressista ama crogiolarsi nell'idea di essere un modello di libertà dello spirito. È convinto di abbattere barriere impenetrabili, ma sfonda soltanto porte spalancate. Come tutti gli anticonformisti di professione, è prigioniero delle mode, inibito da innumerevoli tabù, condizionato da oltre cinquant'anni di terrorismo culturale.

I giullari, gli scrittori, gli artisti alla Benigni, o alla Nanni Moretti, permettono di vincere il senso di colpa per aver mancato l'appuntamento con la rivoluzione, quella vera, di averla barattata per una posizione nel mondo. Per questo sono amati, vendono e fanno vendere, come risaputo da ogni uomo di marketing. Gli intellettuali di questo tipo stanno bene con tutto: tra gli scaffali, in televisione, al cinema, ai festival.

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