Sullo «Zan» della discordia c'è una nota che stona nell'atteggiamento assunto dal vertice del Pd, cioè del partito dove sono confluiti gli eredi della Democrazia Cristiana e del Pci. Tra loro possono essere inseriti a buon diritto anche Enrico Letta, che fu un dirigente scudocrociato, e Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini, che si formarono entrambi nella gioventù comunista. Ciò che stona, appunto, è il massimalismo quasi fazioso con cui il gruppo dirigente del Pd tratta un argomento divisivo come la lotta all'omotransfobia, dimenticando che l'obiettivo principale su temi così delicati è far crescere, maturare la cultura, il costume, insomma, la coscienza dell'intero Paese, e non assecondare solo quei pezzi di società che sono andati più avanti di altri.
In questi frangenti, infatti, prove di forza dall'esito incerto e scorciatoie possono rivelarsi estremamente rischiose. Addirittura possono provocare un rigetto in Parlamento come nella società, con un risultato opposto rispetto a quello che ci si prefigge. Questa, almeno, è stata la lezione dei loro padri, cioè dei vari De Gasperi, Togliatti, Moro e Berlinguer. Né vale paragonare lo scontro in atto con le battaglie civili che ci furono sul divorzio e l'aborto: quelle investirono l'intera comunità; questa, invece, è la difesa, sacrosanta e irrinviabile, dei diritti di alcune minoranze, che per essere reale ed efficace deve essere però condivisa da tutti.
La linea assunta da Letta e compagni stride poi ancora di più se si tiene conto della cautela con cui si muovono pezzi del loro mondo e, soprattutto, di fronte alla disponibilità al dialogo e a ricercare un accordo da parte di settori moderati, della Chiesa, e, addirittura, della destra. Che Matteo Salvini debba insegnare il metodo del confronto e l'arte del compromesso ai nipotini di Moro e Berlinguer, diciamoci la verità, è quasi un paradosso. Ma tant'è. Per non parlare del comportamento ostile (al limite della criminalizzazione) assunto nei confronti di chi, anche nel campo della sinistra, auspica un accordo più ampio e «sicuro» in Parlamento come Matteo Renzi. L'ennesimo episodio dell'eterno conflitto tra «massimalismo» e «riformismo» che ha fatto tanto male alla sinistra.
La ragione di tutto questo, a ben guardare, è la crisi di identità del Pd, che si raddoppia quando sceglie come interlocutore un movimento che in realtà è un «magma» senza forma come i 5 stelle. Per darsi la parvenza di un'alleanza, piddini e grillini sono costretti ad ideologizzare ogni scelta: a quel punto ogni ipotesi di trattativa in Parlamento, magari utilizzando il buonsenso e il pragmatismo, va a farsi benedire; la strada più semplice per un Pd messo in queste condizioni, infatti, è tracciare una riga e dividere il mondo tra chi sta qui e chi sta di là, anche su questioni sulle quali la bussola dovrebbe essere la libertà di coscienza.
Con il rischio di accorgersi, quando il vaso è rotto, che la realtà era ben diversa. Sta succedendo sulla giustizia con il successo dei referendum ed è probabile che Letta e i suoi abbiano un amaro risveglio pure sul disegno di legge Zan. Capita, quando si tradisce l'insegnamento dei padri.
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