Sono passati meno di sei mesi dal secondo turno delle elezioni legislative francesi. Allora fummo tra i pochi a sostenere che Macron, smentendo i comportamenti presidenziali di suoi più illustri predecessori, si era messo nei guai. Per aver troppo voluto, avrebbe rischiato di non stringere niente, trasformando la seconda parte del suo mandato in una Via Crucis. Siamo arrivati al punto. La Francia si trova sull'orlo del baratro politico. Si può sostenere che, in realtà, la crisi sia più profonda e riguardi le strutture sociali del paese che, contro ogni evidenza, una maggioranza di francesi si rifiuta di riformare. L'affermazione può difficilmente essere smentita. La storia, però, ci ha insegnato che le «sovrastrutture» contano. E mentre fin qui le istituzioni hanno aiutato la Francia, ora rischiano di rivoltarglisi contro.
Con la V Repubblica il potere esecutivo ha preso il sopravvento su quello legislativo. Al governo nominato dal Presidente, la Costituzione consente di restare in carica pur senza un preliminare voto di fiducia. E gli concede persino - attraverso il famigerato art. 49.3 - di far approvare un suo testo senza passare per un voto parlamentare. Spetta alle opposizioni, nel caso vogliano farlo, prendere l'iniziativa, presentando una mozione di sfiducia che, per essere approvata, deve raccogliere la maggioranza degli aventi diritto. La prima di queste opportunità è stata sfruttata dal Presidente Macron allorquando, dopo mesi di tergiversazioni, ha messo in pista il governo Barnier, che in Parlamento può contare sui soli voti del suo partito e dei gollisti: troppo pochi per avvicinarsi solo alla maggioranza assoluta. La seconda opportunità dovrà utilizzarla il povero Barnier per provare a sopravvivere, e dovrà farlo per due volte in pochi giorni: questa settimana sulla riforma del welfare; alla vigilia di Natale per la legge di bilancio.
La France Insoumise, il partito di Jean-Luc Mélenchon, presenterà certamente, in ambo le occasioni, una mozione di censura. È assai probabile che i socialisti, anche se con riluttanza, lo seguiranno. Non si sono staccati da lui al momento della formazione del governo, è difficile lo facciano oggi. Le elezioni municipali non sono distanti. In caso di divorzio, sanno bene che non confermerebbero i sindaci di tante città, dove risiede il residuo del loro potere. Il governo, per questo, è appeso alle intenzioni di Marine le Pen, sulla testa della quale è sospesa la mannaia di una sentenza giudiziaria che, in caso di condanna, la dichiarerà ineleggibile. La circostanza potrebbe indurla ad accelerare la crisi. Anche se lei, fino ad oggi, ha posto condizioni ma non si è sbilanciata.
Se Barnier dovesse cadere, avremmo una crisi realmente «al buio». Il Presidente, infatti, non può sciogliere il Parlamento fino al prossimo giugno, ammesso che ne abbia convenienza. Per questo, neppure le dimissioni di Macron risolverebbero il problema di un Parlamento introvabile. La Francia, dunque, sembra trovarsi laddove l'Italia era nel 2012. Allora, dopo ciò che era avvenuto in Grecia, la crisi di un paese rischiò d'investire l'intera Europa. Oggi la situazione è persino peggiore. I politici francesi, infatti, sembrano meno consapevoli di quanto lo fossero quelli italiani del tempo: tutti ricercano il potere ma nessuno ha realmente voglia di governare. La Francia, per di più, è un pezzo dell'asse che, con la Germania, ha retto l'Europa, e se Atene piange Sparta di certo non ride.
L'Europa, infine, dovrà presto affrontare sfide decisive, e non solo nel confronto con l'alleato atlantico. Per questa somma di motivi, la «crisi in un paese solo», potrebbe coinvolgere l'intero continente. Sarà bene non perderla di vista.
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