Sembra ieri quando il governo Meloni, appena formato, varava la sua manovra da 35 miliardi sul filo di lana del 31 dicembre scorso. Seguì un dibattito sul giudizio da assegnare al governo che, al di là delle posizioni politiche, indicava una certa direzione: non si poteva fare di più. L'azione economica del nuovo governo si vedrà meglio dall'anno prossimo. Ed eccoci qua, ormai quasi un anno dopo: con la nota di aggiornamento del Def del 20 settembre prossimo partiranno le danze. Ma già al Meeting di Rimini della settimana scorsa Giancarlo Giorgetti, il ministro dell'Economia, dicastero cardine della manovra, ha messo le mani avanti: «Sarà complicato, non si potrà fare tutto».
Di sicuro c'è che il governo arriva all'appuntamento con un paio di problemi congiunturali che, probabilmente, potevano andare meglio: il primo è il patto di stabilità, il cui futuro funzionamento è ancora in discussione e che rischia di ripristinare dall'anno prossimo i vincoli al deficit di bilancio sospesi dalla pandemia. Il secondo è la politica monetaria restrittiva della Bce, che non dà alcun segno di rallentamento. In queste condizioni, Giorgia Meloni dovrà scegliere cosa fare e cosa no: mettere nuove risorse su tutto quello che servirebbe (sanità, contratti pubblici, scuola, difesa, ponte sullo Stretto, tasse e pensioni) non si può: servirebbe un ordine di grandezza di 40 miliardi, mentre in cassa, contando anche la tassa sugli extra-profitti, ce ne sono sì e no una decina. Altre risorse si possono trovare in deficit, ma per Giorgetti - alla luce della trattativa sul nuovo Patto europeo - meno si utilizza questa leva, meglio è in prospettiva futura. Quindi bisogna scegliere. Ma cosa? Posto che non si possono tagliare spese per decine di miliardi, su quali obiettivi un governo di destra liberale si deve correttamente concentrare?
La scelta è doverosa perché partiamo dal principio che investire risorse rilevanti su pochi temi è meglio che accontentare tutti con pochi spiccioli. Dopodiché la partita del fisco, almeno limitata ai redditi da lavoro, appare la più importante. Per un paio di motivi. Uno di natura economica e congiunturale: rendere strutturali i tagli al cuneo fiscale è la misura che più direttamente va incontro ai redditi bassi colpiti in misura massima dall'inflazione, sostenendo quindi la domanda dal lato dei consumi. Il secondo motivo è politico e identitario, dal momento che il taglio delle imposte (di questo si sta parlando) fa parte fin dalla sua nascita del Dna del centrodestra. Anche per questo ogni altro passo di avvicinamento della riforma dell'Irpef verso l'obiettivo della flat tax sarebbe altrettanto desiderabile.
In base a quanto resterà disponibile, pensioni e infrastrutture meritano forse un segnale in più.
Ma mentre per le prime - come ha detto Giorgetti - il tema da affrontare è quello più ampio, sociale ed economico, che riguarda le politiche contro la denatalità, per le seconde è importante che il governo metta in moto fin da subito la macchina delle opere pubblico-private. Anche per dare forza alla crescita economica nel momento in cui stanno arrivando segnali di rallentamento.
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