La riapertura non è un gesto di entusiasmo, ma un progetto sui cui risultati impegnarsi. Non si riapre perché la gente non ne può più. Non si riapre perché l'economia è al collasso. Non si riapre perché lo dicono i medici. Certo, la regressione della pandemia è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Chi ha il governo della cosa pubblica non può limitarsi a fissare un giorno sul calendario, sulle indicazioni degli scienziati. Deve mettere in campo tutte le azioni indispensabili affinché la festa non si trasformi in un disastro. È questo l'impegno, la responsabilità. Sappiamo tutti che bisogna riaprire, ma non tutti forse abbiamo ben chiaro cosa ciò comporti.
Innanzitutto, questa è una crisi dei consumi, più che della produzione. Un'analisi della società di consulenza McKinsey stima che in Germania lo shock dei consumi incida in negativo sul Pil sei volte più dello shock dell'offerta. Solo riprendendo a spendere avrebbe un senso ricominciare a produrre. Noi siamo una società consumistica. Si possono avere opinioni etiche a riguardo e poi d'accordo, lo cambieremo questo mondo, ma per adesso gli aperitivi della movida sfamano più famiglie della lettura di un libro al tramonto.
Inoltre, gran parte della ricchezza proviene dalla vendita di prodotti voluttuari, ossia rinunciabili. Stiamo facendo le file per i corn flakes e i surgelati, non le faremo per uno smalto per unghie. Consentire l'apertura dei negozi scaglionando gli ingressi equivale a un crollo delle vendite tra il 30 e il 60%, a seconda del settore merceologico. L'industria potrebbe pure produrre a pieno regime, ma il mercato non l'assorbirebbe. Una pizzeria con metà dei coperti impiegherà la metà dei camerieri. No, riaprire per poi fallire non è un'opzione.
Infine, un sistema economico bloccato non riparte girando un interruttore, come fatto per fermarlo. Non basterà un annuncio su Facebook la sera prima. Non è come un decreto, che lo puoi annunciare e poi se ritarda o non produce effetti non fa niente. Quello è il giardino incantato dei dilettanti. Un'economia di consumo ha i suoi meccanismi, plasmati per anni dalle abitudini, dai bisogni e dalle disponibilità dei clienti. Se la scintilla non avviene, il denaro non passa di mano e il motore si ferma. A noi invece serve che giri, molto e molto rapidamente. La ricchezza da produrre, per riassorbire la manodopera espulsa, sarà funzione della velocità di circolazione della moneta.
Chi ritenga scontate queste indicazioni rifletta sul numero abnorme dei morti in certe zone; sulla carenza di tamponi e mascherine, le cui gare di fornitura sono in corso adesso, non a gennaio quando Wuhan era già in lockdown; sulle indicazioni sbagliate e contraddittorie emanate dalle autorità centrali e locali; sulle centinaia di esperti nominati a vario titolo in decine di commissioni; sulla chiusura della Lombardia, annunciata e poi eseguita dopo che tutti erano scappati. No, dobbiamo ammettere quello che sappiamo da tempo. Oggi nelle stanze dei bottoni abbiamo la più grande concentrazione di persone non esperte del governo, confermata pure dal confronto con quelle stanze dove siedono politici fatti e finiti con anni di esperienza di amministrazione, come Veneto e Campania. In un'emergenza simile, l'indirizzo politico viene dopo, e pure eventualmente.
In conclusione, fissare una data di apertura significa assumere
l'impegno di compiere, da ora ad allora, i passi per far davvero funzionare il sistema. Serve una catena di comando unica in grado di progettare e far accadere quanto deciso. L'autorevolezza deve stare nelle azioni, non nel tono.
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