Non sono dei sopravvissuti. È solo difficile riconoscerli. C'è troppo rumore di fondo, troppo rancore, troppa fretta e la voglia di inseguire scie veloci e più o meno luminose. I liberali ci sono ancora, magari stanno guardando un po' più lontano, perché se ti metti a fissare l'Italia e il mondo, adesso, quella che respiri è solo paura e tutto quello che porta in dote. Non è questo il momento di urlare. Allora forse è per questo che ti sembrano pochi, perché parlano poco e a bassa voce. Stanno cercando di capire, tirando linee, come cartografi, perché le vecchie mappe faticano a interpretare la realtà. Questo non significa cancellare il passato, buttare a mare tutto, perché l'umanità è testarda e tende a ripetere gli stessi errori, con sfumature diverse, ma qualcosa da ridefinire c'è. Non fosse altro per non ritrovarsi sempre a rincorrere quello che accade.
Dove sono allora i liberali? Ci hanno pensato due veterani a rispolverare la questione. Le opinioni scritte sulle carta, in questo caso il Corsera, ancora un po' pesano. Ernesto Galli della Loggia si è limitato a sfiorarla e ha parlato della destra, delle scelte strategiche di Giorgia Meloni e delle prospettive di un partito conservatore. I liberali, per lui, sembrano acqua passata. Angelo Panebianco invece è andato diretto, con una risposta disillusa: la cultura liberale non abita qui e in fondo è stata sempre raminga e sparpagliata.
Silvio Berlusconi legge i due editorialisti e non ha nascosto a chi gli sta vicino una certa sorpresa. Non si aspettava il vuoto. Berlusconi si sente un liberale, non solo come politico, per visione del mondo, come imprenditore, come uomo. È una delle sue certezze. Non ha alcuna intenzione di arrendersi. Forza Italia ancora esiste e non è marginale. È ancora lì e rappresenta un sistema di valori. È quello che per brevità si può chiamare «codice Occidentale». È libertà individuale. È democrazia. È una certa idea di Europa. È l'orgoglio di chi continua a fare impresa. È l'idea di capitalismo narrato da Werner Sombart, dove il futuro è una sfida e non ha per forza i colori dell'apocalisse. È tutto ciò che il professor Panebianco, con dispiacere e preoccupazione, vede in dismissione.
Berlusconi rivendica tuttora il suo ruolo politico. Il governo Draghi non è lì per caso. Forza Italia non si è aggregata, ma ha spinto, ci crede, si sta impegnando in una delle avventure più difficili della storia italiana. Ci ha messo la faccia, con orgoglio. È una scelta di campo. È ribadire da che parte si sta. È vero. La storia non si è fermata. I valori liberal-democratici non sono così granitici. L'Europa fatica a trovare un ruolo sullo scacchiere del mondo. L'America non si riconosce. La Cina è un gigante con cui fare i conti, le tentazioni autoritarie e sbrigative ci sono. Proprio per questo un partito liberale ha ancora più senso. Non importa se non ha i numeri del passato. Non è una sfida di breve periodo. C'è un consenso abbastanza forte da poter essere un punto di riferimento politico e culturale. È per questo che Berlusconi non se la sente di condividere le parole di Panebianco o di Galli della Loggia.
Il centrodestra in Italia resta in fondo una sua invenzione. Il baricentro è ancora lì. Non è soltanto una questione di numeri. Forza Italia sta nel governo Draghi anche perché crede che l'Italia abbia bisogno di una serie di riforme che non è più possibile rinviare. Stato, welfare, giustizia non sembrano temi cari ai liberali. Tutti e tre però sono un nodo che rende difficile la vita degli individui e delle imprese. Il futuro dell'Italia passa in gran parte da qui. Da qui deriva anche la riforma fiscale. Non possiamo più permetterci uno Stato orco, una giustizia senza certezze e tutele improvvisate per chi è in difficoltà. Queste sono questioni politiche che magari fanno meno rumore di altre, ma su cui Forza Italia sta cercando di dare risposte. Non ci sono risposte facili o ad effetto, ma qualsiasi governo prima o poi dovrà affrontarle. Siamo sicuri che la risposta liberale sia sorpassata? E quanto sono forti le alternative?
I liberali hanno già fatto i conti in passato con la ribellione delle masse. Il costo è stato alto. Ecco cosa scriveva Ortaga y Gasset nel 1929. «C'è un fatto che, bene o male che sia, è decisivo nella vita pubblica europea dell'ora presente. Questo fatto è l'avvento delle masse al pieno potere sociale. E poiché le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza, né tanto meno governare la società, questo significa che l'Europa soffre attualmente la più grave crisi che popoli, nazioni, culture possano patire. Questa crisi si è verificata più d'una volta nella storia. La sua fisionomia e le sue conseguenze sono note. Se ne conosce anche il nome. Si chiama la ribellione delle masse». Sembra di stare ancora lì. È arrivato il buio, ma il liberalismo non è morto. Il vantaggio, e la speranza, è che adesso sappiamo. Sappiamo cosa c'è in ballo.
La realtà è che quella che stiamo vivendo è una profonda crisi intellettuale. La fine del Novecento ci ha lasciati al buio e andiamo avanti a tentoni, guardandoci indietro con la speranza di trovare qualche risposta. Il liberalismo è radicale nella tutela dei diritti individuali. È radicale nel rifiuto di soluzioni autoritarie. La sua forza è il metodo.
Non crede nei paradisi in terra. Non ha risposte assolute. Il liberalismo va avanti per tentativi ed errori. Cerca di imparare dai propri sbagli. Ne ha fatti tanti e ne ha pagato il prezzo. Non crolla però come i muri alla fine di un'illusione.
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