Le ultime elezioni europee hanno riconsegnato l'Italia al bipolarismo. La parentesi che si è aperta nel 2013, quando la vittoria del Movimento 5 Stelle mandò in pezzi l'assetto della Seconda Repubblica, sembra essersi chiusa. Si sono definiti due campi ben distinti, all'interno dei quali si staglia ora un partito chiaramente egemone: Fratelli d'Italia a destra, il Pd a sinistra. Contemporaneamente, la simultanea sconfitta di Renzi e Calenda ha determinato il suicidio del centro inteso come polo autonomo. Va considerato, infine, che questi elementi sono emersi in un'elezione governata dalla proporzionale: in teoria il sistema meno favorevole a un assetto bipolare.
Il centro, dunque, può oggi considerarsi morto, proprio mentre la «questione centrista» sembra rientrare dalla porta principale. In primo luogo, perché ha una potenzialità elettorale. Le masse astensioniste, che avrebbero dilagato se assieme alle Europee non si fossero svolte elezioni locali, sono composte in prevalenza da potenziali centristi: elettori moderati e di buon senso che non hanno trovato risposte nell'offerta dei partiti che formano i due poli e tanto meno in quella di Renzi e Calenda (personalità che con la moderazione ci stanno come i cavoli con la merenda). Va inoltre considerato come la decisa affermazione del Pd sul M5S abbia risolto la questione dell'egemonia a sinistra. Circostanza che consente, almeno in teoria, la nascita di uno o più cespugli centristi su quel versante. Non certo casualmente Renzi, al quale tutto può essere imputato tranne velocità e spregiudicatezza, si è già mosso per occupare quello spazio.
Certo: le ipotesi fin qui prospettate appaiono tutte troppo eterodirette o frutto di eccessivo calcolo politico, o entrambe le cose. I «partiti dei contadini», però, in sistemi governati da libere elezioni, sono spesso il sintomo dell'esistenza di un terreno che, con il tempo, potrebbe veder nascere dei «coltivatori diretti». In ogni caso, essi hanno l'effetto di movimentare uno spazio fin qui desertificato.
Tramontato il progetto di un polo centrista autonomo, la terra di mezzo torna, dunque, ad essere occupata da elettori pragmatici che, scegliendo di volta in volta sulla base dei programmi, dei leader e delle classi dirigenti, possono determinare la vittoria di uno dei due poli. La partita può riaprirsi: l'alternativa a questo esecutivo è ancora distante, ma non più impossibile. Proprio per questo, la coalizione governativa farebbe bene a non sottovalutare la questione.
Giorgia Meloni non sembra abbia voglia di spingere il suo partito a trasformarsi in una nuova versione del «fu» Popolo delle Libertà. Tiene a mantenere un ancoraggio forte con l'identità originaria. Non intende scoprirsi eccessivamente a destra. Vuole presidiare il territorio dei conservatori, lasciando ad altri di occuparsi dei liberali. Il ruolo di Forza Italia diviene, per questo, cruciale. Ha dimostrato una resilienza che in pochi pronosticavano e, per una sorta di nemesi storica, non può più essere ritenuta proprio da nessuno «un partito di plastica». L'aggancio al popolarismo, inoltre, la mette in contatto con il luogo dei moderati europei.
Se vorrà utilizzare tali presupposti per servire la sua stessa causa - e indirettamente a quella della coalizione dovrà però trovare una strada, diversa da quella di un carisma irripetibile, per riproporsi come la casa di tutti i liberal-moderati italiani: vasto programma! Non siamo interpreti ufficiali, né tanto meno interpreti affidabili. A noi sembra, però, che le recenti prese di posizione prima di Marina e poi di Pier Silvio Berlusconi siano uno sprone a provarci.
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