La reginetta col velo: "L'hijab? Non è sottomissione"

A Cinisello Balsamo sbarca il concorso di bellezza per ragazze con il velo per superare i pregiudizi sull'hijab. Ma sulla violenza contro le donne musulmane che vogliono vestirsi all'occidentale nemmeno una parola

La reginetta col velo: "L'hijab? Non è sottomissione"

"Non un concorso di bellezza per l'aspetto fisico, ma una competizione che valuta la vestibilità dell'hijab secondo i criteri musulmani e l'impegno nella società". Assia Belhadj, attivista italo algerina e presidente del Movimento delle donne musulmane d’Italia, spiega così l’iniziativa andata in scena a Cinisello Balsamo, nel milanese. Sabato scorso un centinaio di ragazze di età compresa tra 14 e 25 anni hanno accettato l'invito a partecipare al concorso "Regina con il Hijab", una sorta di Miss Italia riservata alle donne con il velo. "Sii l’esempio" è il sottotitolo dell’evento. Come a dire: fuori da qui dimostra che la vera bellezza è seguire i precetti religiosi che impongono di non svelare il corpo e i capelli fuori dalle mura domestiche.

In effetti, la sfilata organizzata dall’attivista musulmana, è molto diversa da quelle convenzionali. Niente ragazze in body aderenti o abiti da sera, ma giovani coperte da un caftano bianco accollato, identico per tutte, con sopra un mantello viola e l’immancabile hijab. Anche i criteri di giudizio sono del tutto particolari. Non viene premiata la ragazza dai lineamenti più raffinati, ma quella che indossa meglio il velo. E per "meglio" si intende con più "modestia". E ancora, quella che vive al meglio la vita da musulmana nella società e che ha la pagella o il curriculum migliore. Non a caso il premio riservato alle due vincitrici è un viaggio alla Mecca e nelle confezioni con i cadeau ci sono delle piccole copie del Corano.

L’organizzatrice, però, ci tiene a precisare che coprirsi dalla testa ai piedi non rappresenta affatto un atto di sottomissione. Anzi. Lo scopo dell’iniziativa è far capire che le donne musulmane scelgono liberamente di indossare il foulard. E che spesso, proprio per questo motivo, si scontrano con intolleranza e discriminazioni. "La società occidentale non riesce a vedere la donna velata come qualsiasi altra donna", attacca Belhadj ai microfoni di Tgcom24. "La comunità – aggiunge - non riesce ad accettare il velo e a vederlo come una cosa normale". Lei stessa assicura di aver subito "tante discriminazioni": dalle difficoltà nel cercare lavoro, alle critiche ricevute per la candidatura con il centrosinistra alle regionali in Veneto nel 2020. Belhadj aveva portato gli hater social che la criticavano per il velo in tribunale. Ma la procura di Bolzano ha poi archiviato tutto.

Da qui, la missione di sdoganare l’hijab: "Un'entità, alla quale si arriva dopo un percorso spirituale e una scelta profonda". "Nulla di obbligato", assicura la donna. E lo ripete in un’intervista a La Stampa anche una delle due vincitrici, Mariam Eloziri, ventitreenne di Abbiategrasso, studentessa di Farmacia a Pavia. "Il velo? È il simbolo delle mie origini e della mia religione, non un ostacolo alla vita o un atto di sottomissione come spesso si crede", dice al quotidiano torinese. E poi ci tiene a sottolineare che va indossato "con criterio e ben legato intorno al viso". "Dobbiamo indossare vestiti lunghi e non aderenti", ricorda ancora alle sue coetanee, per le quali vuole essere un modello. Mariam denuncia di essere stata "insultata e mandata a quel paese" per strada proprio per il fatto di indossare l’hijab. Ma né lei né l’organizzatrice, Assia Belhadj, spendono una parola verso quelle donne che il velo sono costrette ad indossarlo, pena botte e segregazione.

Le pagine di cronaca dei giornali sono piene di casi. Dai più eclatanti, come quello di Saman Abbas, punita perché voleva vivere e vestire all’occidentale, a quelli che hanno avuto meno risonanza, come la vicenda della 14enne bengalese pestata dal fratello ad Ostia perché voleva uscire con gli amici senza il velo. O ancora, la storia agghiacciante di Salsabila Mouhib, la 33enne marocchina che ha denunciato cinque anni di vera e propria prigionia imposta dal marito musulmano. E chissà quante altre ancora, come Saman e Salsabila. Chissà quanti altri casi che non verranno mai alla luce, perché non si ha il coraggio o la possibilità di denunciare.

Insomma, è ovvio che chi indossa il velo per una scelta consapevole vada rispettato e incoraggiato.

Ma è sulla tolleranza nei confronti di chi quel velo lo vede come una gabbia asfissiante che bisognerebbe lavorare. Perché quasi sempre, in quest’ultimo caso, a prevalere non è il rispetto, ma la violenza.

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