Lo incontriamo dove il cuore di Israele pulsa con battiti più veloci: Ron Dermer (nella foto a destra) ci accoglie in un ufficio accanto alla sala del Gabinetto di guerra. Entrano in quella sala Netanyahu, Gantz, i capi militari e dei servizi segreti. Lui è ministro degli Affari Strategici. Netanyahu se deve discutere di qualcosa di veramente difficile sceglie Dermer che non è mai stato nel Likud né in altri partiti e risponde solo alla sua propensione politica e morale.
Ministro, lei che è sempre stato un patriota, dopo il disastro del 7 ottobre, non si sente colpito nel sentimento di vittoria del popolo ebraico sulla storia?
«Certo. La promessa di Israele, non consiste solo nel ritorno degli ebrei alla terra d'origine, ma anche nella nostra capacità di difenderci. Il 7 ottobre di fatto la promessa è stata rotta: il nostro compito è ricostituirla. Il punto di partenza è la distruzione di chi ha lanciato l'attacco. Hamas non deve sopravvivere come forza militare organizzata. Punto».
Ma non sono troppi i «perché» e i «di chi è la responsabilità» che aleggiano sulla società israeliana?
«Le domande sono tante e tutti dovremo rispondere, anche io, ministro di questo governo. Adesso, dal 7 ottobre, tutti combattono con bravura».
Il mondo si chiede qual è lo scopo della guerra e come deve finire?
«La guerra deve rimuovere Hamas, distruggere la sua capacità militare, mettere fine al suo potere politico e assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia».
Ma tutto il mondo spinge per un cessate il fuoco.
«Prima di tutto, dobbiamo necessariamente rimuovere Hamas, e chi non lo capisce non conosce il Paese. La gente d'Israele lo esige...».
Da lontano si vede una battaglia di cui è difficile comprendere i passi e la conclusione possibile.
«Primo punto: dobbiamo distruggere Hamas che non è una banda, ma un esercito con 24 battaglioni. 18 sono stati sgominati, ma solo il 50% dei terroristi è fuori gioco. Oltre a questi abbiamo altri 6 battaglioni. Se li lasciamo sul terreno, Hamas riprenderà possesso di Gaza».
Ma dove è Sinwar? Perché le gallerie non sono distrutte?
«Le distruggiamo passo passo. Ma, numero due, dobbiamo sconfiggere la leadership, via via che si va a Sud e ci occupiamo di Rafah, aumenta la possibilità di arrivare ai leader...».
Perché non siete ancora arrivati alla leadership?
«Siamo vicini, lo spazio gli sta venendo a mancare. Una volta presi, il punto numero tre è la strategia che sostengo dall'inizio: resa, esilio. Con questo potremo riprenderci gli ostaggi; dopo la sconfitta e la resa le rimanenti forze possono andare in Qatar o in Libano. Finalmente inizierà il giorno dopo».
Ovvero? Una leadership che gestisca la Striscia?
«Finché c'è Hamas, non può esserci futuro. Dopo possiamo muoverci su demilitarizzazione e deradicalizzazione. Oggi ho più speranze sul conflitto di quante ne abbia avute in 30 anni...».
Sta parlando dello Stato palestinese di cui Biden sembra essere il maggior paladino?
«Biden è un presidente sionista, da subito ci ha sostenuto con la sua visita. Quanto allo Stato palestinese anni fa, a un dibattito, chiesi alla gente che cosa ne pensava. Il 90% era a favore. Quando ho chiesto in quanti lo volessero armato, nessuno era d'accordo, lo stesso quando ho chiesto se dovesse controllare lo spazio aereo fra il Giordano e il mare o se dovessero avere un patto militare con l'Iran».
Biden continua a suggerirlo.
«Riconoscere uno Stato palestinese sarebbe, oggi, il maggiore premio per il terrorismo del 7 ottobre. Chi ama la pace non può volere che un palestinese fra anni possa guardarsi indietro e dire che la strage di massa degli ebrei ha catapultato avanti la loro causa. Hanan Ashrawi, la portavoce palestinese, dopo un attacco terrorista fu intervistata dalla Bbc. Il giornalista disse: Non avrete uno stato finché non combatterete il terrore e farete pace. La risposta fu: Noi siamo un popolo con diritto all'autodeterminazione, quindi avremo uno Stato. Se decidiamo di fare la pace, è un altro tema. Lo scopo dello Stato era il conflitto, non terminarlo. Noi invece non vogliamo che si separi lo Stato dalla pace. Per questo non accetteremo diktat e ogni pace sarà negoziata».
Ma anche nel gabinetto di Guerra appaiono posizioni più disponibili alla visione americana.
«La Knesset ha votato unita, non ci sarà una soluzione imposta che rappresenti un rischio per Israele. Quando si sentono tante critiche dei media su Netanyahu o sull'unità della coalizione, è un messaggio in codice per criticare Israele. Sulle politiche di guerra, militarmente e diplomaticamente, il governo rappresenta la grande maggioranza».
La critica internazionale è puntata sugli aiuti umanitari e sul grande numero di morti e feriti palestinesi, con l'accento su quanto la condizione dei palestinesi a Rafah può diventare un disastro umanitario. E si dice che attaccare Rafah può bloccare la trattativa sugli ostaggi.
«Sugli ostaggi, 112 sono stati liberati. Restano 134 di cui parte potrebbe non essere più in vita: sappiamo che la via più realistica per rivederli è con un accordo. Quanto a Rafah: se lasciamo in piedi i battaglioni abbiamo perso la guerra; ma attueremo strategie per muovere quanti possiamo a Nord e studieremo come fargli ricevere aiuti. È un impegno morale. A Gaza più di metà dei residenti è sotto i 18 anni: sarebbe folle negare aiuto. Resta la domanda di dove va a finire. E mi creda, l'ultima «pita» se la prende Hamas. Quanto ai cittadini di Gaza durante la guerra, il nostro impegno è stato ed è colossale, direi senza precedenti, in avvertimenti, telefonate, strade sicure. Hamas è responsabile della loro tragedia».
Come vuole veder finire questa guerra?
«Dobbiamo assicurarci la demilitarizzazione dell'area: il confine con l'Egitto deve essere sigillato così da impedire passaggi di armi e uomini; dobbiamo poter condurre operazioni militari, sperando che siano sempre meno nel tempo. Occorre anche un cuscinetto che provveda alle comunità intorno la possibilità di vivere in sicurezza».
Ma come si abbandona la prevalenza del controllo militare? A chi si affida la Striscia?
«Occorre ciò che a me sembra altrettanto importante, la deradicalizzazione. Altrimenti fra 20 anni ci odieranno nello stesso modo. Dopo una vittoria militare è possibile cambiare l'odio palestinese in convivenza? Altrimenti ci prendiamo in giro. Oggi l'85% dei palestinesi dell'Anp sostiene la strage. La questione è cambiare cultura. Cosa impara un bambino? Occorre un cambiamento basilare. La Germania e il Giappone furono deradicalizzati e ci vollero anni. Anche oggi società si stanno trasformando: l'Arabia Saudita e i Paesi del Golfo».
E come comincerà questa trasformazione?
«Con la sconfitta militare».
Prevede l'apertura di un grande fronte anche con Hezbollah?
«La nostra è una scelta di deterrenza attiva. Hezbollah non sembra volere una guerra. Al Sud vogliamo cambiare la situazione con la guerra, al Nord con la diplomazia.
Tuttavia siamo pronti a combattere: è la prima volta che abbiamo visto l'asse dell'Iran che ci combatte da ogni parte. Anche gli Houthi si sono mobilitati per stringere l'assedio. La nostra vittoria sarà una vittoria anche per gli Stati Uniti». E certo anche per l'Europa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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