Un Paese che ha perso il suo cuore azzurro

Non è l'apolicasse, ma il sintomo di una Nazione che ha smesso di crederci. E che deve ricominciare da zero

Un Paese che ha perso il suo cuore azzurro

Non è vero che non si può fare più scuro della mezzanotte. C'è un buio pesto, che fatichi ad immaginare, un azzurro che sprofonda ancora di più nelle tenebre e ti lascia a casa. Adesso, davvero, non ci puoi credere. Non c'è neppure la voglia di maledire. C'è solo un silenzio incredulo, che scivola nella rassegnazione. Facce sconfitte, meste, il pianto di Buffon, con lo sguardo che punta il vuoto. È quello che siamo, gente a cui hanno strappato il futuro. No, non è certo questa l'apocalisse. Non lo è la maschera messa e poi buttata via di Bonucci, il quasi palo in mezza acrobazia di Florenzi, le sostituzioni confuse, sacramentare per i rigori non dati, quel tempo che scorre senza che accada nulla. Non lo è la sventura di un uomo seduto su una panchina troppo grande per lui. Chi se ne frega del calcio. Solo che il pallone è uno specchio. È un sfera che guardi e in cui ti riconosci. Vedi quello che sei, come paese, come individui, come qualcosa che assomiglia a un popolo. Te lo ricordi quel luglio del 1982? L'urlo di Tardelli al Bernabeu era un sentimento che passava di bocca in bocca come una liberazione, con la rabbia di chi voleva scacciare via angosce, piombo e paure, per sentirsi leggero, ottimista, per uscire fuori di casa senza scannarsi tra rossi e neri, senza ideologie, senza sangue, senza rivoluzioni. Te la ricordi l'estate del 2006? L'ultima prima di questa crisi senza orizzonti, quando in pochi avrebbero pensato che ci si può abituare a tutto: al terrore islamico e quotidiano, alla pensione da moribondi, ai figli senza lavoro, alle clausole di salvaguardia, allo spread da bar, a una vita da facebook e a tirare a campare.

Adesso pensa alla prossima estate. Non c'è neppure quel mese ogni quattro anni che ti regala una scommessa, un'illusione, una cavolo di speranza, un segno del destino. L'oracolo del pallone, come il fondo del caffè, ti dice che non c'è riscossa, che il cielo è sempre più grigio, che da questi anni micragnosi non si esce neppure con un tiro sbilenco e fortunato oltre il novantesimo, non si esce in zona Cesarini, quando tutto sembra perduto e puoi solo appellarti al rocambolesco spirito italico. Questa volta non c'è uno stellone che ti salva, non c'è il genio improvviso, non c'è quell'abitudine a cavarsela che straluna i tedeschi e fa girare le palle ai francesi. Niente, neppure una magia sporca e di sponda. Solo il vuoto e la rassegnazione.

Sono mesi che si sta lì a dire che non è verosimile un mondiale di calcio senza l'Italia. Si, è successo nel 1958 in Svezia, eliminati dall'Irlanda del Nord, ma sono passati quasi 60 anni e di quella squadra sono rimasti vivi in pochi, come Gino Pivatelli, centrattacco del Bologna. Era l'Italia oriunda di Montuori, Da Costa (l'altro superstite), Ghiggia, Schiaffino. Era solo un lontano ricordo, un'anomalia, un cigno nero, qualcosa di imprevisto nel gioco delle probabilità. La regola è che l'Italia ci va, magari inciampa, carambola, ritorna in ciabatte, sfiora il miracolo e qualche volta vince. Giovanni Arpino raccontò la caduta del '74, di un'Italia cacciata al primo turno da polacchi e argentini. Era Azzurro tenebra. Non era un romanzo sul calcio, ma sulla vita, su come anche dentro una sconfitta ci sono personaggi che sanno essere uomini, su gente mediocre e palloni gonfiati, sulle guerre di potere di grassi burocrati e su come siamo bravi certe volte a farci del male. «La spedizione azzurra ai mondiali di calcio aveva affittato quella residenza imbottendola di giocatori, ruote di formaggio grana, unguenti e acque minerali patrie, orgogli e terrori, menischi pericolanti, isterie e berrettini multicolori, taciute diarree e illusioni muscolari, vaseline ideologiche ed omertà coi giornalisti amici, polemiche a fil di denti e onestà solitarie. E tutto un arcobaleno di diplomatici abbracci, frasi fatte, slogan, luoghi comuni, evviva, distinguo, alibi, euforie». Ce ne saranno altre di cadute. In Sudafrica e in Brasile, per esempio. Ma almeno uno spicchio di speranza lo abbiamo visto. Quelle notti erano meno scure. Quell'azzurro tenebra era comunque azzurro. Forse è questa allora la differenza. In questa notte manca l'azzurro. Non c'è più, svanito, evaporato, sbiadito. Non ci crediamo più. L'Italia è un'espressione geografica, qualcosa su cui non conviene scommettere, perché non si sa neppure bene cosa sia.

È un battello alla deriva, dove ognuno pensa ai fatti suoi, dove non ti puoi fidare né dei ladri e né di chi grida onestà. È un vuoto a perdere. È vero. Non andare al mondiale non è certo l'apocalisse, ma vale come una premonizione: di questo passo ci aspettano altri anni di purgatorio.

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