Parla da leader europeo

C'è una scuola di pensiero in una parte della politica, in qualche organo di informazione, che punta a dimostrare dal giorno dopo in cui si è insediato il nuovo governo che con Draghi non è cambiato niente, che Mario e Giuseppi pari sono.

Parla da leader europeo

C'è una scuola di pensiero in una parte della politica, in qualche organo di informazione, tra qualche intellettuale e commentatore Tv, che punta a dimostrare dal giorno dopo in cui si è insediato il nuovo governo che con Draghi non è cambiato niente, che Mario e Giuseppi pari sono. Al punto da immaginare una figura mitologica, una sorta di Giano bifronte aristocratico: il Conte Draghi. Dentro c'è il risentimento per il potere perduto di quelli che sono entrati nella stanza dei bottoni con la stessa consapevolezza di chi vince una lotteria (vedi Casalino e Travaglio); c'è la nostalgia per una formula politica, quella giallorossa, che qualcuno, avendo poca fantasia e nulla in mano, sarà costretto a giocarsi anche in futuro; infine, c'è la stizza di chi aveva puntato sul fatto che Matteo Renzi nella sua strategia si sarebbe dato scacco matto da solo, che Matteo Salvini sarebbe finito nel dimenticatoio e che l'«ancien régime» del Conte due sarebbe durato almeno fino al 2023 (mezzo del Pd). Insomma, sono quelli che si sono battuti nell'ultima crisi al grido «Conte o morte» e si sono ritrovati, loro malgrado, a dover applaudire Draghi. Con queste bistecche ideologiche sugli occhi è evidente che la differenza tra ciò che era e ciò che è ora non la vedranno mai. Eppure è cambiato molto, quasi tutto.

A meno che qualcuno non pretenda dal personaggio Draghi una rivoluzione da un giorno all'altro. Ma l'attuale premier non è un rivoluzionario. Tutt'altro. È uomo d'establishment. Dell'establishment, e la differenza non è di poco conto, internazionale. Lo sanno i mercati che, infatti, hanno abbattuto gli interessi sui nostri buoni del Tesoro, cioè sui soldi che prendiamo a debito. Lo sanno i suoi interlocutori internazionali sulle due sponde dell'Atlantico e non solo. Ieri nell'illustrare - con tono asciutto, scevro dalla retorica pomposa della coppia Conte-Casalino - i risultati del Consiglio d'Europa, nel raccontare di Joe Biden («ha portato aria fresca»), delle relazioni ritrovate con gli Usa («oggi gli Stati Uniti hanno solo un alleato principale ed è la Ue»), della Russia e della Cina, Draghi sembrava parlare non solo a nome dell'Italia ma dell'intera Europa. Se ne sono resi conto pure a Bruxelles, visto che Draghi non ha esitato a tirare le orecchie alla Commissione per come ha gestito il tema dei vaccini anti-Covid e ha introdotto per il loro approvvigionamento lo stesso concetto con cui aveva affrontato la crisi economica: il whatever it takes, ad ogni costo. E lo hanno capito a loro spese pure le Big Pharma, dato che il premier italiano non ci ha pensato due volte a bloccare l'esportazione di 250mila vaccini AstraZeneca infialati in Italia e a tracciare una strada che potrebbe essere un esempio per gli altri 27 Paesi europei. Un antipasto di quello che potrebbe succedere se nel prossimo futuro i patti non saranno rispettati.

Lo ha fatto mostrando tre qualità indispensabili nella gestione dell'emergenza: pragmatismo, competenza, autorevolezza. Qualcuno dirà ma a noi che importa? Un anno fa abbiamo trascorso la Pasqua chiusi in casa e dopo 365 giorni stiamo per ripetere la triste esperienza. Sarà anche vero, ma se hai perso un anno di tempo inventandoti banchi a rotelle e Primule, se i bandi per le terapie intensive li hai indetti solo ad ottobre (otto mesi dopo l'inizio della pandemia), se quelli per i «vaccinatori» li hai pubblicati appena a dicembre, se c'è voluto il nuovo governo per mettere insieme le aziende che potevano produrre i vaccini in Italia (sorvoliamo sul tema mascherine per carità di patria), non puoi certo mettere in croce per la tua condizione chi è arrivato da appena un mese. Anche perché a differenza del suo predecessore, che nell'anno della responsabilità nazionale si è inventato la dottrina della deresponsabilizzazione (in poche parole chi sbagliava non pagava), Draghi ha rimosso chi ha commesso e reiterato errori, dal commissario straordinario Arcuri al capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Né tantomeno si è tirato indietro nel denunciare in Parlamento quelle Regioni che hanno favorito «i furbetti del vaccino», i gruppi che hanno approfittato della loro «forza contrattuale», si tratti di magistrati, di professori universitari o di avvocati. A questo punto gli basterebbe applicare - senza sprecare parole, minacce o ultimatum l'articolo 117 della Costituzione, ricordando ai governatori siano di destra, di centro o di sinistra che la profilassi internazionale «è di competenza statale esclusiva». Un particolare che il predecessore - incline a delegare - nella sua memoria di professore universitario di Diritto aveva completamente rimosso. Non parliamo poi dell'economia: siamo passati da uno che aveva le visioni (tanti soldi sprecati), ad uno che ha visione.

Del resto se sei stato per cinque anni governatore di Bankitalia e per otto Presidente della Bce non può essere un caso. A meno che non abbia ragione l'Elevato (Grillo) con la menata «uno vale uno».

Solo che il Comico l'aveva detta a mo' di battuta, ma purtroppo qualcuno ci ha creduto.

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