La Pasqua a distanza ci prepara alla risurrezione

È una strana Pasqua, sento dire, questa del 2020. Tutti in casa, niente riunioni di famiglia, nessuna festa caratteristica.

La Pasqua a distanza ci prepara alla risurrezione

È una strana Pasqua, sento dire, questa del 2020. Tutti in casa, niente riunioni di famiglia, nessuna festa caratteristica. A Firenze il carro non scoppierà. Quest'anno lo si capisce meglio: anche se, in realtà, la Pasqua è sempre una festa strana. Fin da quel lontano giorno raccontato dai Vangeli. Fu un giorno strano anche allora, difficile da raccontare. E così è sempre stato.

Ce lo dicono gli artisti. Di tutti i soggetti religiosi, la Resurrezione è probabilmente il meno frequentato. Abbondano le Annunciazioni, le Natività, le Visitazioni, le Maternità, ovviamente le Crocefissioni, le Pietà, le Deposizioni, le Presentazioni al Tempio, le Flagellazioni, e poi i diversi miracoli, le parabole, le Fughe in Egitto, Gesù tra i dottori, e così via.

La Resurrezione è più rara, più difficile, l'artista non sa come affrontarla, da che parte prenderla. Spicca su tutte, per noi italiani, quella (meravigliosa) di Piero della Francesca, a Borgo S. Sepolcro, dove a far da modello del Risorto è un corpo rude di contadino: come se la Resurrezione, anziché sollevare Cristo verso il cielo, lo radicasse ancor più nella carne e nella terra.

Perché la Resurrezione è più difficile da immaginare? Ci ho pensato spesso. La prima risposta è che nessun artista ha mai sperimentato la Resurrezione, la seconda è che non si tratta di un mito ma di un fatto di cronaca, qualcosa che ha la pretesa di essere accaduto quel tal giorno, a quella tal ora.

Nel giorno di Pasqua, cioè oggi, noi festeggiamo questo. Possiamo crederci o no: la cosa è inconcepibile in ogni caso, la mente non ci arriva. La festeggiamo, però con cautela: va bene l'uovo, la colomba, l'agnello, ma a differenza del Natale non c'è scambio di regali, perché i regali si fanno se c'è un bambino che nasce, non se un morto torna alla vita dopo aver conosciuto quello che c'è di là.

Nei miei ricordi, anche i più lontani, la Pasqua si lega a un sentimento di disagio. Ricordo le visite di nonni e zii, ricordo pranzi al ristorante, ma senza tutta la spensieratezza che mi aspettavo. Tra l'eccezionalità di quell'avvenimento raccontato in chiesa da un lato e, dall'altro, la normalità di un pranzo, di un abbraccio in famiglia mancava un aggancio, un punto di contatto. La similitudine primaverile, frequentata a volte anche dai preti, non reggeva: Cristo non risorge come le foglioline sui rami a fine marzo.

La mia fortuna è che i miei figli vivono vicino a casa mia. Anche mia figlia, che fino all'anno scorso viveva a Vienna, adesso è qui. Nei duecento metri d'aria concessi per fare la spesa c'è anche un passaggio sotto le loro case. Ci salutiamo, io da basso e loro alla finestra, oppure loro da basso e io e mia moglie dal balcone che dà sulla strada.

Li posso guardare in faccia, anche in questi giorni. È un privilegio immenso, immeritato. Ma in questi giorni le loro facce sono più enigmatiche del solito. Sono felice di vederli, di scambiare due parole con loro, ma guardandoli sento in me una sorta di precipizio. Il legame naturale non spiega l'esser padri e l'esser figli. Anche perché di legami naturali spesso si muore.

Alcuni amici in questi giorni hanno perso chi il papà, chi la mamma, chi l'uno e l'altro. O un fratello, o una sorella. Da quello che loro stessi mi hanno detto appare evidente che la morte, sciogliendo i legami naturali, ha evidenziato quelli veri, profondi, che il rapporto quotidiano tendeva a ottundere.

La parola giusta è: distanza. Si cammina e si mantengono le distanze. In fila al supermercato ci si distanzia di qualche metro. Quando gli sguardi s'incrociano è come se ci si domandasse scusa a vicenda, ci dispiace, non siamo diffidenti, è che le cose stanno così. Occorre distanziarsi. Già questa è una piccolissima morte.

Ma la distanza è più profonda. È quello che mi sgomenta davanti alle facce sorridenti dei miei figli. I rapporti veri si svelano nella distanza. Sulla croce, perfino il Padre prende le distanze dal Figlio, che morirà da uomo, solo, abbandonato da tutti. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ciò che resta del divino in lui è l'aver accettato tutto questo, l'aver detto sì a questa solitudine. Il divino è tutto in quel «sì».

La regola dei rapporti umani è questa, ma una tenace illusione ce la fa scoprire quasi sempre quando essi vengono meno, come nel trauma della morte di una persona cara. Lo dice Leopardi: «perì l'inganno estremo/ ch'eterno io mi credei».

La Pasqua ci ricorda, inesorabilmente, che questa distanza, non governata da noi, non gestita da noi, è la vera natura dei rapporti umani, qui e adesso. Che la radice di tutti i nostri legami, intimi o occasionali, quello con la moglie e il figlio come quello con l'ultimo degli eschimesi, è qualcosa che non ci appartiene.

Accettare questo mistero dà gusto al vivere, toglie la noia, infonde curiosità, rende umana la routine, e offre a tutti - fosse anche il peggiore dei criminali - la

possibilità di ripartire, di ricominciare. Di rinascere.

Tutti desideriamo rinascere. Ma è un desiderio che ci fa paura, per questo il giorno di Pasqua, con o senza il Covid-19, è un giorno strano. E così è giusto che sia.

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