Centosessantotto giorni sono una prognosi ragionevole per riprendersi dallo shock delle urne. Secondo la particolare concezione del tempo che gli è propria, orgogliosamente tarata sulle ere geologiche della nomenklatura, il Pd ha deciso che le primarie della rinascita si terranno il 12 marzo 2023, 168 giorni dopo il voto. Di certo non si può accusare i dem di impulsività - per dire, 12 governi della storia repubblicana sono rimasti in carica meno. Però, il coma farmacologico in cui il primo partito dell'opposizione è scivolato rischia di essere un problema pure per il governo, perché la democrazia parlamentare è come un matrimonio: per farla funzionare bisogna essere in due, mentre qui ci sono tre opposizioni (e potenzialmente due o tre maggioranze...).
Il segretario uscente Enrico Letta ha annunciato ieri le tappe del «percorso costituente» verso il congresso: prima una «tre giorni di mobilitazione straordinaria» a novembre; segue dibattito; infine, la scelta di linea e leader. Una traversata nel deserto da affrontare con tutta calma, come una rigenerante vacanza di auto-analisi. Approccio che già accende polemiche intestine, con il governatore emiliano e candidato segretario, Stefano Bonaccini, che mette in guardia dal rischio di impelagarsi in una «discussione filosofica sul senso della sinistra e della vita mentre gli altri governano».
Ed è proprio qui il punto. Il governo Draghi ha insegnato che un'opposizione dura ma seria, com'è stata quella di Fratelli d'Italia per esempio sulla politica estera, rafforza l'esecutivo. Al contrario, un Pd in bambola, suonato come un pugile, è un pericolo per Giorgia Meloni, perché regala la golden share della controparte politica al M5s di Giuseppe Conte, il quale - dal draghicidio in poi - è tornato a crescere grazie ai «no» a prescindere.
Il Pd nell'ultimo mese è stato immobile, come in posa per la foto da mettere sulla lapide. Superato dai grillini nei sondaggi, è stato scavalcato in Aula dal Terzo polo, che machiavellicamente ha aperto a una collaborazione su semipresidenzialismo (Renzi) e merito (Calenda), di fatto ipotecando il ruolo di oppositore ragionevole. In questo quadro, la competizione interna per la leadership renderà impossibile qualsiasi contatto costruttivo con la maggioranza. Quale candidato dem oserebbe collaborare su temi come energia, Pnrr o armi all'Ucraina? Chi si assumerebbe il rischio di venire additato come quinta colonna dei fascisti? Letta ieri nel suo discorso ha bollato come «stampelle del governo» i renziani, definendo le regole del gioco: scannatevi pure per la poltrona, ma con le destre non si dialoga. Una resa annunciata all'oltranzismo di Conte, in barba al monito di Macron: «La sinistra classica è una stella morta, perché l'ideologia non le permette di pensare al reale com'è».
Ecco, la grande speranza - per l'Italia più che per Meloni - è che dalla gestazione di 168 giorni nasca una leadership in grado di riconnettere il Pd con la realtà.
Magari seguendo le voci e le idee di chi - da Bonaccini a Concita De Gregorio - da settimane si ostina a introdurre elementi di buonsenso e concretezza nel dibattito. Ma si sa, in un partito che Letta ha voluto «un po' Wikipedia e un po' Van Gogh», il buonsenso è una lingua ostica.
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