Secondo la storiella, gli Inglesi quando si profila un giorno di nebbia dicono: «Toh, guarda, il Continente è isolato». E adesso possono dire: «Toh guarda come l’Europa si sente sola». Sì, gli inglesi si immaginano a volte come Alec Guinness nel Ponte su Fiume Kwai, fieri, altezzosi e determinati fino alla fine. I giovani sono diversi, cittadini del mondo, meno carichi di storia e cultura nazionale. Ma per chi ha più di quarant’anni essere molto inglesi e poco europei sembra motivo di orgoglio. L’insularità dell’Inghilterra la isola geograficamente, guardata dalle bianche scogliere di Dover, ma il suo immenso carico di identità la rende indispensabile, senza l’Inghilterra manca all’Europa un pezzo di identità così rilevante che il Continente sembra preso da una malinconia patologica condita da panico. È come se fosse ancora in corso la Guerra dei cent’anni, come se lo scisma dei Tudor dalla Chiesa seguitasse a disegnare la determinazione a distruggere qualsiasi dipendenza dal Continente, come se Margaret Thatcher col suo rifiuto della moneta unica e di Schengen fosse ancora là di guardia. La vittoria del no all’Europa non è un fatto di classe né di interessi: è piuttosto un sentimento, una memoria, una scelta di vita. I giovani hanno perso mentre il mondo occidentale li esalta come leader supremi. Sono i giovani fra i 18 e i 24 anni che hanno votato per ilremain, e anche gli elettori fra i 25 e i 49 anni sono stati, secondo le indagini, favorevoli per il 56 per cento. Ma è arrivata la vecchia guardia, fra i 50 e i 64 anni, che ha votato out per il 56 per cento e, sopra i 65, il 51 per cento. Non ha avuto peso fra di loro l’indicazione del sindacato persino nelle Midlands e nei vecchi distretti industriali.
Data l’età degli antieuropeisti si può dire che il voto è un voto di disagio economico come di nostalgia per l’Inghilterra unica, audace, che «stands alone», si erge da sola, come dopo la resa francese durante la seconda guerra mondiale, contro Hitler; forte del suo orgoglio imperiale e militare, del suo orrido «pie» di fegato, della guida a sinistra, della birra al pub, degli aerei spitfire, di Virginia Woolf. Gli anziani inglesi, al contrario delle generazioni cibernetiche, multimediali, multirazziali, multilingue che sono pronte a mescolarsi e a condividere i loro problemi economici con le difficoltà altrui, vedono l’Ue come estranea e persecutoria. Le generazioni che hanno votato contro l’Ue più che contro l’immigrazione e per la destra di Farage, hanno votato per il passato alla Churchill, non hanno paura di «lacrime sudore e sangue» ma odiano essere governati da un corpaccione che ha fra i 14 e i 15mila funzionari, mentre la Commissione Europea ha 25mila dipendenti, tutti con stipendi alti. Come possono gli inglesi intonare in tedesco l’«Inno alla gioia» di Beethoven? Come possono sottostare ai quintali di regoline e leggette che l’Ue produce in continuazione? L’Italia seguita a pascersi delle citazioni del «Manifesto di Ventotene»: c’è da dubitare che in Inghilterra si sia mai letto il manifesto in cui lo stato nazionale è descritto come il peccato originario, puzzolente di «patria e suolo», da superare contro «le disuguaglianze e i privilegi». L’Inghilterra non è su questa lunghezza d’onda. Ha sentito pesarle addosso la burocrazia impossibile delle istituzioni, le leggi, le carte.
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