"Duecento coltellate". Quei fidanzatini uccisi e il delitto che sconvolse Cori

Nel 1997 Elisa Marafini e Patrizio Bovi vennero uccisi a coltellate. Fu ritenuto colpevole del delitto un amico del ragazzo, Marco Canale, condannato a 30 anni di carcere

"Duecento coltellate". Quei fidanzatini uccisi e il delitto che sconvolse Cori

Lei aveva solamente 17 anni, lui 23. Ma questo non bastò a fermare la furia omicida della mano che strinse il coltello e sferrò in sequenza decine e decine di colpi. Una violenza cieca che lasciò senza vita Elisa Marafini e Patrizio Bovi e che rese tristemente noto per gli anni a seguire il piccolo paese di Cori, in provincia di Latina, dove le case sono distribuite sia nella parte a valle, che in quella più alta.

Ed è proprio in un appartamento situato in una delle strette stradine in salita che caratterizzano il paese a monte, composto da alcune abitazioni e locali, una piazza, la chiesa e l'antico tempio, che si consumò il duplice omicidio passato alle cronache con il nome di delitto di Cori.

Nel 1997 Elisa Marafini aveva 17 anni, era una studentessa al quarto anno di ragioneria e viveva a Cori con i genitori e il fratello. Patrizio Bovi, che in paese si faceva chiamare Gianni, all'epoca aveva 23 anni, un passato di adozione, lavori saltuari, tra cui tappezziere, falegname e cameriere, e la passione per la musica. Da qualche mese i mondi apparentemente molto distanti di Elisa e Patrizio si erano incontrati e i due ragazzi si erano innamorati.

L'omicidio

Era il 9 marzo del 1997, una domenica. La famiglia di Elisa Marafini la stava aspettando per la cena, prevista come sempre alle 19.30, orario a cui la ragazza, 17 anni, avrebbe dovuto fare ritorno a casa. Quel ritardo sull'ora di cena parve subito strano ai genitori. Il padre Angelo, maresciallo dei carabinieri in pensione, sapeva che, da qualche tempo, la figlia frequentava Patrizio Bovi, un ragazzo di 23 anni, che passava da un lavoro all'altro e aveva avuto a che fare con la droga.

Così, non vedendo rientrare la figlia, uscì insieme al figlio minore e andò a cercarla a Cori Monte, a casa del ragazzo, in via della Fortuna 41. Quando arrivò a casa di Patrizio suonò, ma senza ottenere risposta. Per questo, si recò in campagna dove aveva un terreno e recuperò una scala lunga: l'intenzione era quella di salire e guardare dalla finestra. La paura che potesse essere successo qualcosa a Elisa era già nell'aria, proprio perché la 17enne non era solita fare tardi sull'orario del rientro, per di più senza aver fatto nemmeno una telefonata per avvisare.

Il padre di Elisa chiese aiuto anche a un amico di Patrizio, Massimiliano Placidi. Fu lui a entrare per primo nell'appartamento del 23enne, dopo essersi arrampicato sulla scala. Una volta entrato, il ragazzo aprì la porta anche ai famigliari della ragazza. Al piano terra tutto sembrava in ordine, ma non appena gli uomini salirono i gradini che portavano alla camera da letto, la paura che fosse successo qualcosa di brutto diventò certezza: Elisa e Patrizio erano riversi a terra, lei ai piedi del letto, lui in bagno. I due corpi, ormai senza vita, giacevano in una pozza di sangue. Entrambi avevano schiena, braccia e collo martoriati da decine di coltellate.

Delitto di Cori

L'autopsia rivelò che le centinaia di colpi erano stati inferti con un coltello "da punta e da lama", lungo e molto affilato, di quelli solitamente usati per affettare i prosciutti. In effetti l'arma del delitto, emersa successivamente, corrispondeva a un coltello da cucina, largo e lungo, che l'assassino aveva nascosto nel cassetto delle posate nell'appartamento della strage. Dopo gli omicidi, il killer aveva pulito la lama nel tappetino del bagno.

Il pomeriggio del 9 marzo, stando a quanto venne ricostruito successivamente, Elisa era uscita di casa dopo pranzo, per incontrare Patrizio, a Cori Monte. Intorno alle 16 venne vista in un bar, mentre cercava di telefonare a qualcuno, senza però ottenere risposta, e poco dopo incontrò Patrizio, in compagnia del quale passò il pomeriggio. L'ultima volta che i due ragazzi vennero visti ancora in vita erano le 19.35, davanti a casa di Bovi, mentre armeggiavano con un cellulare.

Tre piste

Fin dall'inizio i carabinieri indagarono in ogni direzione, prendendo in considerazione svariate piste."Non escludiamo nulla, le indagini sono a 360 gradi", avevano riferito gli inquirenti, secondo quanto riportò l'Unità dell'11 marzo 1997. Immediatamente però venne scartata la possibilità che si trattasse di un omicidio-suicidio, dati i molteplici colpi trovati sui corpi delle vittime: 51 su quello del ragazzo e 124 su quello di Elisa. Un numero di coltellate senza precedenti, che mostrava la furia cieca del killer.

Uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto fu il colonnello Ilario Vaccari, che a Blu Notte raccontò: "Quella notte ci siamo trovati di fronte al cadavere di due ragazzi giovanissimi la cui morte appariva inspiegabile. Quindi, per forza di cose, le nostre indagini si sono immediatamente orientate a 360 gradi". Nessuna ipotesi esclusa.

E per il primo mese di indagini furono tre le piste privilegiate: quella passionale, quella legata alla droga e quella familiare. Per cercare di venirne a capo, il centro scientifico dei carabinieri setacciò l'intero appartamento, alla ricerca di qualche impronta o traccia che potessero portare al killer dei due ragazzi.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il delitto poteva essere avvenuto in due tempi: prima sarebbe stato ucciso Patrizio Bovi e, a seguire, Elisa Marafini. Il 12 marzo del 1997 l'Unità dava già la notizia di un primo arresto. Ma, "nell'ipotesi di accusa non c'è traccia di delitto". A finire nel mirino degli inquirenti fu un 29enne amico di Patrizio, che venne accusato di aver venduto al ragazzo della cocaina. E, in quel momento, la pista della droga sembrò essere quella da ritenere privilegiata.

In realtà i carabinieri non tralasciarono le altre ipotesi e nel registro degli indagati finirono alcuni amici di Patrizio e il padre di Elisa. Il padre della ragazza venne considerato un "indagato tecnico", anche se il comportamento di Angelo Marafini sollevò qualche dubbio, dato da qualche incongruenza negli orari e dal fatto che l'uomo, dopo aver scoperto il corpo della figlia, riportò in campagna la scala usata per salire nell'appartamento.

Finirono nel mirino degli inquirenti anche Massimiliano Placidi, che aveva scoperto i corpi insieme al padre e al fratello di Elisa, Marco Canale, operaio 27enne che viveva nel vicino paese di Cisterna ed era amico di Patrizio, e Piero Agnoni, macellaio di un paese vicino, che conosceva entrambe le vittime.

Un delitto passionale?

Durante alcuni rilievi nello studio di Massimiliano, vennero trovate alcune tracce che parevano poter essere di tipo ematico. Inoltre l'alibi fornito dal ragazzo non convinse gli inquirenti. E il 15 marzo del 1997 Placidi venne arrestato con l'accusa di omicidio plurimo aggravato.

Ma perché avrebbe dovuto uccidere quello che riteneva essere il suo miglior amico e la sua ragazza? La risposta si sarebbe dovuta ricercare in quel rapporto molto stretto che sembrava legare Massimiliano e Patrizio. A spingere Placidi a uccidere sarebbe stata la gelosia nei confronti dell'amico di cui, secondo l'accusa, si era invaghito.

Ma "la crescita di un sentimento d'amore dello stesso Placidi verso Bovi" sarebbe stato "ostacolato dalla presenza della Marafini". Quindi si sarebbe dovuto ricercare il movente nel "mondo sommerso dell'omosessualità", al quale sembrava appartenere Placidi, unito all'assunzione di grandi quantità di cocaina, che avrebbero spinto l'omicida ad alzare la mano e affondare il coltello per quasi duecento volte.

Dopo qualche giorno, durante un interrogatorio, Placidi confessò il delitto. "È stato un raptus - avrebbe detto, secondo quanto riportato al tempo da Repubblica - Non so bene neanche io perché", fose per "paura di perdere un'amicizia". Placidi avrebbe ammesso di aver colpito prima Patrizio nel bagno, poi Elisa, attirata al piano superiore da quegli strani rumori. Ma una volta davanti al procuratore, Massimiliano ritrattò tutto, sostenendo di aver confessato il falso.

Per 24 giorni Placidi rimase in carcere. Poi venne liberato, su decisione del tribunale del riesame, che accolse il ricorso dei difensori dell'uomo, annullando l'ordinanza di custodia cautelare. Come ricorda Agi, le 60 pagine di motivazione parlarono di uno scenario non in grado di "giustificare il giudizio di elevata e qualificata probabilità di colpevolezza a carico di Placidi" e di indizi non idonei "a raggiungere il sensibile livello di gravità richiesto dal legislatore". La procura di Latina fece ricorso contro la sentenza del tribunale del riesame.

Il Dna inchioda uno degli indagati

Marco Canale

Meno di un mese dopo la scarcerazione di Massimiliano Placidi, gli inquirenti fermarono un altro degli indagati. Si trattava di Marco Canale, l'operaio di Cisterna di 27 anni, amico di Patrizio. A incastrarlo furono un paio di jeans macchiati, trovati dagli inquirenti in casa del ragazzo all'indomani del delitto e sequestrati, per permettere al Centro di investigazioni scientifiche (Cis) dei carabinieri di analizzarli. Il Cis scoprì che le tracce trovate sui pantaloni erano delle macchie di sangue, compatibili con quello di tutte e due le vittime.

Così, il 26 aprile 1997, Marco Canale finì in carcere. Per spiegare quelle macchie di sangue, Canale ammise di essere stato nell'appartamento in via della Fortuna il pomeriggio del 9 marzo e di aver visto i fidanzatini già morti. Sostenne poi di essere scappato senza dare l'allarme. Le macchie sui pantaloni, a sua detta, se le doveva essere procurate in quell'occasione.

Ma alcuni testimoni avevano visto Elisa e Patrizio ancora vivi fino alle 19.30 di quella domenica. Nemmeno l'alibi fornito dal ragazzo convinse gli inquirenti: "Abbiamo analizzato profondamente l'alibi fornito da Marco Canale - spiegò il colonnello Vaccari a Blu Notte - e abbiamo avuto la capacità e la fortuna di portare alla Corte d’Assise testimonianze ed elementi tali che hanno consentito di appurare che l’alibi fornito da Canale non aveva possibilità di riscontri".

Il 14 dicembre del 1998, la Corte d'Assise di Latina condannò Marco Canale a trent'anni di carcere. Qualche giorno prima, il pm aveva scagionato gli altri imputati. Successivamente la sentenza di primo grado venne confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma, nonostante l'insistenza dell'imputato nel proclamarsi innocente. Ma nel 2001 anche la Corte di Cassazione confermò il carcere per Marco Canale, rendendo la condanna definitiva.

Nel 2019 Marco Canale è uscito dal carcere, avendo beneficiato di uno sconto di pena, grazie al "comportamento esemplare" che tenne durante i suoi 22 anni di reclusione.

Una volta scontata la sua pena, il comune di Cisterna avviò la procedura per un "tirocinio formativo e di reinserimento sociale", per aiutare Canale a rimettersi in gioco all'interno della società, con la determina dirigenziale del Settore Welfare n.1929.

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