Gli immigrati musulmani, che vivono in Italia, picchiano le mogli "per preservarne l'identità". Una pratica che si sta diffondendo sempre di più tra le comunità musulmane che considerano la donna come un oggetto. Le afgane, le pakistane, le africane non sanno di avere diritti. Le pachistane e bengalesi vengono addirittura segregate in casa. Soprusi benedetti dagli imam locali nel nome di Allah e del Corano. Tra le comunità di immigrati islamici, secondo un report allarmante riportato in esclusiva dall'Huffington Post, è in corso una forma di reislamizzazione come "forma di difesa dell'identità".
Delle donne marocchine che vivono in Italia solo il 23% ha un lavoro. Una percentuale bassissima se si tiene presente che tra le ucraine il tasso di occupazione è al 70%. Le pachistane e bengalesi, invece, non lavorano quasi mai. Sono costrette alla segregazione: non escono per lavorare, non imparano l'italiano, possono solo guardare programmi in urdu o in bengalese. I numeri della comunità bengalese, che negli ultimi anni è arrivata a contare 20mila persone, sono impressionanti: su 6.200 donne appena 170 lavorano e 220 gestiscono piccole imprese. Quasi tutte sono arrivate in Italia attraverso un matrimonio combinato e celebrato in patria. Prima di quel momento non avevano mai visto il marito. Quando arrivano nel Belpaese, non gli è più consentito lavorare e gli viene imposto il velo integrale.
Secondo Noemi Bisio, ricercatrice di Roma Tre, la "reislamizzazione della comunità migrante" è una sorta di "forma di difesa dell'identità in un contesto culturale estraneo". In Italia c'è la proliferazione di movimenti radicali che cercano di convertire porta a porta i non credenti o riconvertire i cattivi musulmani. Ed è così che i musulmani si radicalizzano. "Non sono rari – spiega la Bisio all'Huffington Post – episodi di violenza domestica contro mogli che, intravvedendo la possibilità di una vita diversa, accennano a una pur blanda ribellione". Le critiche degli altri uomini della comunità e i sermoni degli imam spingono anche gli islamici più moderati a vietare alle mogli di uscire e a obbligarle a indossare il velo integrale. In questi contesti, poi, non mancano le percosse. "Di solito all’inizio vengono picchiate sui piedi, in testa, in modo che le ferite restino nascoste - spiega Genny Giordano di Iside - le più disgraziate sono sfigurate con l’acido delle batterie delle auto. L’acido ti corrode per tutta la vita, va avanti fino alle ossa, nel tempo può ucciderti". Fuggire è pressoché impossibile. "Spesso più nuclei familiari coabitano, le donne sono controllate, intervengono le famiglie d’origine, e poi tutta la comunità", continua Giordano che pone l'accento sulle colpe degli imam e sulla preponderanza dell'islam.
"Sottrarsi alla violenza dei mariti significa fare i conti con la comunità patriarcale, famiglie d’origine, padri, zii, fratelli che fanno una questione d’onore - racconta all'Huffington Post Francesca Mallamaci è responsabile di tre servizi d’accoglienza dell’Arcidiocesi di Reggio Calabria - alla notizia che la donna è scappata o ha chiesto aiuto, si incontrano e stabiliscono la sua sorte. Invariabilmente si tratta di dare al marito un’altra possibilità.".
La segregazione in solo non mira solo a sottrarre mogli e figlie dagli sguardi di altri uomini, ma anche di impedire loro di frequentare donne occidentali che vengono immancabilmente considerate "pericolose e corrotte".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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