La politica italiana è il festival del paradosso. La riforma della giustizia del ministro Cartabia è incagliata alla Camera e Enrico Letta accusa Forza Italia, Lega e Italia Viva di volerla affossare. Quale sarebbe la colpa? Di non volere, per usare un ossimoro, una riforma che non riforma. Esattamente quella che vorrebbe il Pd, da sempre difensore di un sistema che lo garantisce. Solo che il sistema di cui si parla è del tutto marcio. Ecco per l'appunto il problema: all'indomani dell'annus horribilis della giustizia italiana, in cui non un pinco pallino ma l'ex presidente dell'Associazione magistrati, Luca Palamara, ha svelato il malcostume che regna nel mondo delle toghe, e alla vigilia di referendum che interverranno sulla materia, l'unica cosa che non puoi proprio fare è una riforma all'acqua di rose.
E invece, anche se tutti manifestano ai quattro venti il desiderio di cambiare registro, al solito, usando la tattica del muro di gomma e i sotterfugi che si nascondono nei labirinti del Potere, tutte le istanze di cambiamento vengono depotenziate, svilite, rese inefficaci. Il sorteggio nell'elezione dei membri togati del Csm per destrutturare le correnti dei magistrati, vero cancro di quell'ordine dello Stato? La Cartabia dice che è impossibile perché indigesto ai giudici e non lo vuole Mattarella che lo considera - chissà perché - incostituzionale. Inutile dire che tutte le riforme che non vanno a genio al sistema sono sempre bollate come incostituzionali. La separazione delle funzioni tra pm e giudici? Sì, ma non troppo. Il divieto del magistrato di entrare in politica e poi tornare indietro? Sì, ma con una serie di fattispecie. Le pagelle ai giudici? Apriti cielo, Giancarlo Caselli parla di «schedatura», mentre per Magistratura Democratica sono una parolaccia. Già, come al solito, anche se il gradimento dei magistrati nell'opinione pubblica è andato sotto le suole, le toghe pongono veti e infliggono scomuniche contro chi, secondo la Carta, avrebbe il compito di legiferare.
Il punto è che la coda della pandemia e la guerra hanno fatto perdere di vista la drammaticità del tema. Altrimenti Mario Draghi - complici le manovre del Quirinale e il desiderio di non scontentare nessuno - non avrebbe tenuto la riforma a bagnomaria per nove mesi. Ed ancora, la Cartabia non avrebbe utilizzato come testo base quello del suo predecessore, il dj Fofo alias Alfonso Bonafede, creando una situazione surreale: se nella Commissione non sarà trovato un accordo, la Guardasigilli potrebbe mettere la fiducia sul testo dell'ex Guardasigilli, cioè varato dal governo giallorosso. Di fatto un ricatto. Roba da non credere. Come pure appare assurdo che su una riforma di questa importanza qualcuno abbia teorizzato di approvarla a Montecitorio e ratificarla a Palazzo Madama, privando il Senato del diritto di dire la sua.
Ma non è una sorpresa: quando in Italia si parla di riformare la giustizia può succedere di tutto. Solo che non si possono scaricare sugli altri le proprie responsabilità. Il Pd ha scelto il ruolo di difensore di un sistema putrefatto. Bene.
Gli altri, che si avvolgono nella bandiera del garantismo, facciano la loro battaglia in Parlamento e sui referendum se hanno coraggio. Cominciando col pretendere che la consultazione referendaria si svolga su due giorni per non togliere la «voce» non solo al Senato, ma anche al Paese.
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