Riportiamo Draghi in campo

Nei giorni scorsi siamo stati costretti, dall'onda di scemenza planetaria che si sta accanendo in particolare sull'Italia, a scervellarci su chi meritava di vincere il Festival di Sanremo

Riportiamo Draghi in campo

Nei giorni scorsi siamo stati costretti, dall'onda di scemenza planetaria che si sta accanendo in particolare sull'Italia, a scervellarci su chi meritava di vincere il Festival di Sanremo. Questioni epocali, mi rendo conto. Propongo perciò, con scarse probabilità di successo, di spostare l'attenzione da Amadeus a Draghi.

Una ragione per indicare questa giravolta dello sguardo l'ho. È una notizia che riguarda noi italiani: pare che gli americani abbiano trovato un giacimento aurifero a casa nostra e se ne vogliano impossessare con quella che si chiama, usando il linguaggio de Il Padrino, «una proposta che non si può rifiutare». Gli hanno assegnato negli Usa il vero Nobel dell'economia, quello della politica economica, della scienza applicata e non del fumoso pentolone delle teorie. Significa che non è il più bravo nel laboratorio delle astrazioni, ma nel risolvere problemi universali. Senza troppo rumore, senza grancasse di annunci, è accaduto questo evento forse persino più importante del televoto napoletano. In una fase di turbolenze spaventose, i capataz del dollaro hanno indicato in Mario Draghi, uno straniero, addirittura un italiano, il lume di una speranza di stabilità, innanzitutto a loro beneficio, ovvio. Lo hanno ascoltato incantati. Gli hanno ribattuto per verificare la sostanza granitica delle sue idee. Siccome conoscendolo sono certo declinerà con eleganza, spiegando che a casa ha lasciato il gas acceso, invito a non trascurare il segnale transatlantico.

Lo scopritore della miniera che noi abbiamo lasciata incustodita è un'organizzazione di quelle che, sottotraccia, comandano il mondo, sono un potere forte, direi formidabile. Si chiama Nabe. Frequento con una certa assiduità Draghi. Non me ne aveva detto nulla, né di premi né di viaggi a Washington. Così, come il 99 per cento delle persone comuni, fino all'altro ieri non sapevo neppure dell'esistenza di questo nome. È un acronimo. Sta per «National Association for Business Economics», dove il sostantivo decisivo, conoscendo gli (...)

(...) americani, sono certo sia Business. Se mi avessero chiesto di indicare cosa significasse Nabe, stando al dibattito culturale italiota, sarei stato incerto, se mi avessero proposto il quiz tra una pregiata specie di manzo giapponese massaggiato con la birra, un pericoloso uragano caraibico dirottato dal cambiamento climatico sull'Adriatico, ma alla fine avrei optato per il noto rapper pugliese sconfitto a Sanremo. Trattasi invece della prestigiosa adunanza dei 600 economisti che impugnano le leve degli investimenti d'America.

Adesso che lo so io, e lo sapete voi, cari lettori, facciamo circolare la novella. Con un monito. Guai a farci scippare questo tesoro nazionale, è un deposito in oro zecchino, ed io sono convinto che questo patrimonio di intelligenza pratica vada investito senza gelosie da parte di nessuno, come guida dell'Europa che oggi balla sui carboni accesi di guerre, inflazione e recessione con i piedini niente affatto rassicuranti di Ursula von der Leyen. Non trovo intorno a me, vicino e lontano, alcun entusiasmo a questo riguardo. Non mi stupisco. Purtroppo, noi italiani siamo così: se c'è un fenomeno tricolore, ci dedichiamo concordemente, destra e sinistra, sopra e sotto, a sistemarlo nel museo delle cere, e neppure in vetrina, perché potrebbe sempre suscitare l'impressione che la reliquia sia ancora viva e vegeta, ma nei magazzini delle muffe.

Sia chiaro. Non ho, specie in questo periodo bideniano, gran che stima degli americani, bravi a fare le guerre a casa degli altri, lasciandovi macerie. Non mi riferisco alle masse ma alle élite, che sanno fare benissimo i loro interessi a nostro discapito, persino perdendo i conflitti che scatenano. Stiamoci attenti però.

Nessun talk show se ne è occupato. Il Premio, intitolato a Paul A. Volcker, il genio che fu il braccio economico di Reagan e del suo miracolo, non ha ripeto - nulla a che fare con il Nobel ufficiale designato dai parrucconi di Stoccolma. Costoro si distinsero per la scemenza di consegnarlo ai professori di Harvard che avevano inventato gli algoritmi della nostra rovina finanziaria (i cosiddetti «derivati» che nemmeno mi sogno di spiegare quale diavoleria siano). Nel nostro caso si è trattato di tutt'altra storia: l'alloro è stato posato sulla testa a chi ha mostrato di avere non solo capito l'andamento del mondo, ipnotizzato dalla stupidaggine della globalizzazione felice, ma di essere riuscito con scelte pratiche a salvare l'Occidente, riparando dal default l'Europa e in particolare l'Italia.

Frequentando Draghi con una certa assiduità conosco le sue idee esposte con semplicità. Si tratta di restituire all'Unione Europea, a riguardo della quale è inutile coltivare l'utopia di staccarci, una sua dignità: alleata sì, ma non succuba degli Usa, trovando un senso nuovo alla sua esistenza. Dove senso vuol dire significato e direzione. Non si risolvono più i problemi manovrando da Francoforte o da Washington sulla moneta - all'euro ci aveva già pensato lui - ma agendo sulle politiche fiscali ed energetiche. Finanziando gli investimenti e il welfare con titoli europei a responsabilità comune.

In questi mesi è preso dall'incarico europeo di dar consigli a Bruxelles su come restituire concorrenzialità all'economia Ue. Un lavoro di ascolto ed elaborazione enorme da parte sua. Altro che monumento a cavallo, da nascondere. Ha mostrato di avere idee applicabili subito.

Smettiamola di considerare Draghi un disturbo, quasi fosse un nobile arnese da raccomandare a una casa di riposo svizzera dove insegnare l'arte del burraco ai pensionati tedeschi. Capaci che ce lo rubino. A Bruxelles sarebbe, come presidente del Consiglio europeo, un affare non per il Nabe ma per il governo Meloni e per la ditta Italia.

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