Addio al rito ambrosiano: cala il sipario sul sistema che voleva rivoltare l'Italia

Da Di Pietro a Colombo, da Davigo a Padalino, cosa rimane della storica stagione di Mani pulite

Addio al rito ambrosiano: cala il sipario sul sistema che voleva rivoltare l'Italia

Se il rito ambrosiano fosse stato uno sport, e i pm milanesi una squadra, Fabio De Pasquale sarebbe stato un eterno panchinaro: lo fecero titolare solo a fine stagione, e il nuovo allenatore, il procuratore capo Francesco Greco, fu l'unico che gli diede fiducia: il risultato potete leggerlo nell'articolo all'interno. Invece l'allenatore storico, Francesco Saverio Borrelli, non l'aveva mai schierato tra i «galacticos» di Mani pulite: forse per i metodi spicci, o per l'accusa d'aver indotto al suicidio Gabriele Cagliari, o per i disastri dell'inchiesta su Assolombarda, e su Giorgio Strehler, sui fondi Cee, eccetera. O, semplicemente, perché non andava d'accordo col centravanti di sfondamento.

Antonio Di Pietro. Fanno ormai trent'anni che il panzer Di Pietro ha lasciato quella magistratura alla quale, per indole e formazione culturale, non avrebbe mai dovuto appartenere. Per farla breve: fu l'uomo che traslò in Mani pulite (da lui inventata) uno stile da ex poliziotto di periferia che nel 1993 gli donò un consenso del 94 per cento degli italiani; intanto altri due pm, Colombo e Davigo, traducevano i suoi verbali d'interrogatorio in una procedura penale che si fece estremamente elastica e utilizzò il carcere per ottenere confessioni. Il molisano, furbo e intuitivo, nel tardo 1994 fiutò la stanchezza popolare («l'acqua non va più al mulino») e gettò la toga alle ortiche quando capì che certi suoi comportamenti del passato sarebbero sfociati in sanzioni disciplinari compromettenti, come spiegherà una sentenza rimasta oltretutto inappellata (Brescia, 29 gennaio 1997) che inquadrò tutte le sue velleità politiche: «Palese il desiderio di lasciare l'incarico giudiziario nel momento di massima popolarità e sèguito, e ciò non poteva non essere funzionale e strumentale ad un successivo sfruttamento di questa popolarità, proprio in vista di una progettata attività politica». La quale non finirà bene.

Gherardo Colombo. A vederlo non l'avresti detto: jeans stinti, la Lacoste, scarpe da vela consumate, pipa e poi sigarette, il vizio delle dita nel naso. Lui e altri magistrati si riunivano nel circolo Società civile: tra questi Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo, Giuliano Turone, Armando Spataro e altri che per statuto non fossero dei politici. Già sulla rivista di Magistratura democratica, nel 1983, annotava che «alla magistratura è stata devoluta una serie di compiti che investono più la funzione politica che quella giurisdizionale». Cotanto spirito di servizio si occupò dello scandalo dei fondi neri Iri e della P2. Poi, in Mani pulite, il suo ruolo fu essenziale nello stilare la legislazione materiale dell'inchiesta, quel rito ambrosiano fatto di carcere facile, libertà per chi confessa e per chi fa delazione, patteggiamenti come regola e verbali utilizzati come prove. Fu il cardine dell'inchiesta più faziosa di Mani pulite: Enimont. Ma il «comunismo» di Colombo è tutto in questa sua frase: «È vero che la riservatezza va tutelata, ma quando il progredire di tutti confligge con l'interesse particolare, io penso che vada sacrificato il secondo al primo». Nel 2007 ha lasciato anzitempo la magistratura e ha messo nero su bianco, in un libro: «Mani pulite non ha cambiato l'Italia Il livello di trasgressività di questo Paese è rimasto quello di prima... È stata la prova provata che l'amministrazione della giustizia non raggiunge i suoi scopi. E che, funzionando malissimo, può anche creare ingiustizie».

Piercamillo Davigo. Per anni, a reggere lo scettro del duro e puro, ha resistito giusto lui, con Antonio Di Pietro imbruttito sul suo trattore, Gerardo D'Ambrosio senatore di sinistra (poi morto) e Francesco Saverio Borrelli (morto pure lui) che pronunciava frasi inquietanti: tipo che Mani pulite era stata un errore. Ora Davigo è un pensionato, e non lo ricorderemo certo per la sua condanna in Appello a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d'ufficio in relazione alla diffusione dei verbali di Piero Amara, passati di mano in mano tra i membri del Csm e pure tra alcuni parlamentari. Lo ricorderemo per certe sue battute e frasi impietose e ammiccanti (una poco nota è questa: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo»), ma lo ricorderemo, pure, per questa sua frase rilasciata al suo giornalista preferito: «Bisogna abolire il divieto di reformatio in peius in Appello. Se ti condannano e tu appelli, può toccarti una pena più alta. In Italia non si può». E infatti è anche per questo che Davigo, in Appello, non ha preso una pena più alta: ha preso una pena uguale.

Paolo Ielo. Ora è procuratore aggiunto di Roma, dove ha condotto l'inchiesta Mafia Capitale (tra altre) e dove non tutti ricordano che nel 1993, da trentenne, era già membro di Mani Pulite: non lo ricordano, forse, perché Ielo non è divenuto un reduce professionale e perché insomma la vita va avanti, e questo messinese, dapprima un po' insolente, nel tempo si è trasformato in uno dei magistrati più equilibrati su piazza. Ma, ai tempi, pm come lui dovettero impazzire per riesumare, concludere, archiviare o smistare procedimenti che erano sembrati delle architravi di Mani pulite ma poi erano rimasti sospesi in quella eterna fase preliminare che era dominata dagli interrogatori di Di Pietro: per esempio i procedimenti Metropolitana ed Enel a margine dei quali, a stagione raffreddata, Ielo ottenne esiti anche ragguardevoli nel dimostrare il ruolo del Pci-Pds nella spartizione tangentizia.

Andrea Padalino. Questo non lo ricordano tutti: come mai? Forse perché la vita di questo magistrato è proseguita ed è andata in una direzione, come dire, mediaticamente poco ortodossa. Esempio: chiese 9 mesi per Beppe Grillo con l'accusa di aver violato una baita sigillata dalle Forze dell'ordine, indagò contro il terrorismo No Tav (e si ritrovò la scritta «Padalino, terrorista è tua madre» su un muro di Torino) eppure è stato un «eroe» di Mani pulite: da giovanissimo gip, per un breve periodo, fu oggetto delle peggiori maledizioni berlusconiane e ciò gli valse menzioni, medaglie e indagini ministeriali. Chiese persino l'arresto di Paolo Berlusconi: insomma un mezzo martire, uno che attaccare, a sinistra o in ambiente grillino, era complicato. Fu lui ad autorizzare raffiche di arresti nell'inchiesta Guardia di Finanza-Fininvest del 1994, quella che avrà epilogo nel celebre invito a comparire per il Cavaliere. Ma poi ha fatto altro.

Non si è mai iscritto ad alcuna corrente, è passato al tribunale civile di Vercelli laddove, come ha riconosciuto una graduatoria del Sole 24 ore, ha smaltito ogni arretrato con una velocità superiore a quella di tutti gli altri. Ecco perché se ne parla poco.

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