"Salviamo il disaccordo". Appello contro l'omologazione

Sono in 150, intellettuali, scrittori e accademici e in una lettera aperta denunciano le restrizioni del dibattito pubblico ora che il dibattito pubblico, nell'era dei social network, appare più libero che mai

"Salviamo il disaccordo". Appello contro l'omologazione

Sono in 150, intellettuali, scrittori e accademici e in una lettera aperta denunciano le restrizioni del dibattito pubblico ora che il dibattito pubblico, nell'era dei social network, appare più libero che mai. E invece loro, che di libertà di pensiero dovrebbero intendersi, scattano un'istantanea di questo momento storico, definendolo un'epoca in cui «le forze illiberali stanno guadagnando forza in tutto il mondo» e «il libero scambio di informazioni e idee sta diventando sempre più limitato». Denunciano la tendenza a «liquidare complesse questioni politiche in un'accecante certezza morale», un'«intolleranza di visioni opposte», puro «conformismo ideologico» che si trasforma in una tendenza alla «pubblica gogna e all'ostracismo». Ne hanno per tutti. Non solo la destra radicale incarnata da Donald Trump - da cui, dicono, «se lo aspettavano» - ma anche la «nostra cultura» (leggasi progressista, accademica, di sinistra) nella quale la «censura si sta diffondendo». Perciò criticano anche le derive del movimento anti razzista di protesta nato negli Usa e sostengono che pure «la necessaria resa dei conti per la giustizia sociale e razziale» ha finito per «alimentare il soffocamento di un dibattito aperto».

È di fatto un anatema contro il pensiero dominante, contro il conformismo di massa e anche contro il politically correct il documento pubblicato sul mensile di cultura statunitense Harper's Magazine e firmato dalla mamma di Harry Potter, JK Rowling, da Salman Rushdie, lo scrittore che ha vissuto per anni sotto scorta per i suoi Versetti Satanici, dal linguista e filosofo statunitense Noam Chomsky, dallo scacchista russo Garry Kasparov, dalla poetessa canadese Margaret Atwood, oltre che da un gruppo di storici, giornalisti e accademici. «Sosteniamo il valore di un contro-discorso robusto e persino caustico da ogni parte», scrivono. E per dimostrare che è arrivato il momento di una riflessione collettiva citano gli esempi «degli ultimi mesi», quando «una serie di figure sono state messe alla gogna per commenti considerati offensivi da qualcuno, compresi argomenti legati a questioni di razza, genere e sessualità».

Non menzionano esplicitamente i casi ma è evidente che la mente va al fuoco di fila che si è scatenato contro JK Rowling, accusata di avere offeso le trans per avere detto che chi ha mestruazioni ha un nome, ed è «donna». Lei stessa in un'intervista alla Bbc cita la folla inferocita di Twitter e dei social network come principale responsabile di questa cultura del pensiero dominante. C'è poi James Bennet, opinion editor del New York Times, costretto a dimettersi il mese scorso dopo la pubblicazione di un articolo del senatore repubblicano Tom Cotton, in cui il politico conservatore esortava a inviare l'esercito nella città americane travolte dalle proteste antirazziste. Non finisce qui. A gennaio il tour di Jeanine Cummins è stato cancellato dopo che il suo libro Il sale della terra è stato condannato perché - secondo il tribunale collettivo - conteneva stereotipi sui messicani. Così come è bastato citare un insulto razziale di quel James Baldwin che più di ogni altro ha esplorato le questioni razziali per far scattare l'accusa di discriminazione su un professore americano.

Che succede, dunque? Più genericamente - scrivono i 150 - «gli editori vengono licenziati per l'esecuzione di brani controversi; i libri vengono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti è vietato scrivere su determinati argomenti; i professori vengono indagati per avere citato opere letterarie in classe e i capi delle organizzazioni vengono espulsi per quelli che a volte sono solo errori goffi».

Ed ecco la conclusione: «Rifiutiamo qualsiasi scelta falsa tra giustizia e libertà, che non possono esistere l'una senza l'altra».

«Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede senza terribili conseguenze professionali». Serve poter sbagliare, è il senso: «Abbiamo bisogno di una cultura che lasci spazio alla sperimentazione, all'assunzione di rischi e persino agli errori».

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