
Anni fa un collega, all’epoca meno famoso di oggi ma già tracotante come adesso, andandosene via dal Giornale, chiamato da un altro quotidiano - guarda caso il Fatto - salutò così la redazione: «È stato bello, ringrazio tutti, un po’ meno i colleghi del Politico che titolavano male i miei pezzi». Dimostrando un’educazione peggiore della qualità media dei suoi articoli.
Ci è venuto in mente l’altra sera quando in tv abbiamo sentito dire da Andrea Scanzi - personalità famosissima per tutto tranne per quello che si ostina a fare: il giornalista - che le sue «belle interviste» vengono rovinate dai titolisti, i cosiddetti «culi di pietra» che «non hanno una vita sociale, stanno sempre in redazione, non scrivono» e quindi sono frustrati e si vendicano.
Ora. Non citeremo la prima regola del giornalismo, e cioè che se un’intervista non dà un buon titolo è l’intervista che fa schifo: cioè è colpa di chi l’ha scritta non di chi la titola. Però citiamo i colleghi del Fatto i quali, al telefono, ci dicono che Scanzi scrive un pezzullo alla settimana, le sue belle interviste nessuno le ha mai viste, «e poi di che cazzo di vita sociale parla, lui che vive ad Arezzo?».
Che poi il problema non è neppure quello che ha detto Scanzi, il quale in fondo non è simpatico, non è geniale, ma non è intelligente. Ma quello che ha fatto.
Il giorno dopo, per scusarsi, volendo fare un passo indietro, ha chiamato i colleghi. Però non la redazione che fa i titoli. Ma i capi che gli pagano lo stipendio.
Quando si dice avere una retromarcia in più.
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