A Sanremo è successo quello che in campi diversi, ma allo stesso livello, accade in tutto il Paese. Sanremo è Sanremo, che è l'Italia. E succede che a Sanremo, Italia, una minoranza, non chiamatela neppure élite, è una pseudo élite, sovverte il (tele)voto del pubblico. Altri Paesi sono esperti di golpe, noi ci accontentiamo per fortuna di ribaltoni, in politica e non solo. E così il giovane Mahmood, trionfatore finale, per il televoto era solo terzo con il 14,1% delle preferenze, mentre il vincitore sarebbe stato Ultimo, con il 46,5%. Praticamente quattro volte di più. Poi sono arrivati i voti della sala stampa e della Giuria di qualità, e tutto è cambiato. E mai come in questo caso i social sono insorti, ritenendo ingiusta l'inversione della decisione del pubblico sovrano. Cioè: tu per 69 anni mi vendi il Festival della canzone italiana come l'evento «nazionalpopolare» per eccellenza, poi però del «popolare» te ne freghi e affidi la decisione più importante, quella del vincitore, a una ristrettissima cerchia di addetti ai lavori. Come se si trattasse di una Mostra dell'arte cinematografica di Venezia qualunque... Lì sì che devono votare e decidere registi, attori, produttori, sceneggiatori. Ma a Sanremo, se è «nazionalpopolare», sceglie il popolo. O no?
No. Sceglie, alla fine, una numero ristretto di giornalisti della sala stampa (la casta più ideologizzata che esista oggi in Italia) e un numero ancora più ridotto di intellettuali (otto; in numeri arabi: 8), espressione di una Giuria d'onore presieduta da Mauro Pagani, e va benissimo, e composta da Ferzan Ozpetek, Camila Raznovich, Claudia Pandolfi, Elena Sofia Ricci, Beppe Severgnini e Serena Dandini, lasciando perdere Joe Bastianich, nomi che letti in fila uno dopo l'altro - mancavano solo Saviano, Gad Lerner e la Boldrini - pensi subito al congresso ombra, commissione Cultura, del Pd.
Ecco, è esattamente questo ciò che infastidisce. Non che abbia vinto un (bravissimo) ragazzo italiano il cui padre solo per caso è egiziano. Ma che ciò lo abbia deciso non il pubblico pagante (0,50 centesimi per ogni chiamata da telefono fisso) ma una pseudo élite completamente scollegata dal Paese (come lo sono mediamente i giornalisti, di qualsiasi cosa si occupino: politica, economia, cinema, musica e libri non ne azzeccano una) e un salottino pariolino, o Solferino, cultural-chic.
«Noi siamo noi, e voi non siete un...». Per farla breve. Circa duecento giornalisti e otto giurati hanno praticamente annullato i desiderata di due milioni di telespettatori (circa), negando la democrazia. Festivaliera, si intende. Un bel problema. Tanto che lo stesso direttore artistico del Festival, Claudio Baglioni, durante la conferenza stampa conclusiva ha ammesso che forse è meglio cambiare la formula della votazione: «Se il Festival volesse essere una manifestazione popolare potrebbe anche essere gestita solo dal televoto». Ma va? Da parte sua il Codacons, l'associazione dei consumatori, oggi presenterà un formale esposto all'«Autorità per la concorrenza»: «Il voto del pubblico da casa è stato di fatto umiliato, con conseguenze enormi sul fronte economico, considerato che gli spettatori hanno speso soldi attraverso il televoto, reso inutile dalle decisioni di altre giurie».
La domanda è legittima. Ma è corretto far vincere un cantante che ha appena il 14% del voto delle persone da casa solo perché Severgnini non sopporta Salvini? Si chiamano capricci. Poi non dite: «Ma Mahmood meritava comunque...». Il voto da casa si paga. Se non serve a niente, meglio toglierlo.
«Cosa c'entra Salvini?», dite. C'entra. Perché la politicizzazione della vittoria di Sanremo (in un'edizione che ha strumentalizzato da subito il tema dell'immigrazione) c'è stata, eccome, e da entrambe le parti. Lo ha fatto chi, da destra, si domanda ironicamente se sia una coincidenza che a vincere a Sanremo al tempo di Salvini e dei migranti sia un italo-egiziano che canta con tono arabo il marocco-pop... E lo ha fatto chi, da sinistra, ha twittato di godere per una vittoria che andrà di traverso al Capitano.
Comunque ne riparliamo alle elezioni europee, quando non ci sarà una Giuria di qualità per ribaltare il voto popolare (e sovrano, più che sovranista) come accade in
Riviera. Ve lo immaginate? Il risultato delle urne passato al vaglio di una giuria composta da Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky e Michela Murgia... Non diciamolo a voce alta.Il Pd potrebbe prenderla come una buona idea.
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