Se un metro ora non basta più

Stai lontano da me. Più lontano, per favore

Se un metro ora non basta più

Stai lontano da me. Più lontano, per favore. Le scene che ci vengono recapitate dalle strade della movida italiana, in questo anticipo di primavera che ha spinto molti concittadini e connazionali a bersi l'ultimo aperitivo prima di diventare arancioni-spritz, danno il quadro di un'Italia spensierata, disperatamente inconsapevole, ansiosa di godersi l'ultima scannucciata di libertà prima che diventi vigilata. Tutti insieme appassionatamente sui Navigli, a Trastevere, in via Caracciolo, perché del doman non c'è certezza, quindi godiamoci l'oggi. Nel mentre il mondo scientifico ci ammonisce: pagheremo caro, pagheremo tutti.

Ieri è stato l'infettivologo Massimo Galli - una delle cassandre in servizio permanente effettivo, che vede sempre nero seppia e lo fa avvertendo di sperare di essere smentito, cosa ahinoi finora mai accaduta - ad avvisarci: con le nuove varianti, più infettive anche se non necessariamente più letali, stare a distanza di un metro e mezzo potrebbe non bastare più. «La maggiore trasmissibilità del mutante Uk - spiega paziente - significa che probabilmente una concentrazione magari anche inferiore delle goccioline che vengono emesse respirando riesce ad arrivare ugualmente qualche centimetro più in là e a infettare, semplicemente perché la maggiore affinità di questa variante per i nostri recettori cellulari fa sì che probabilmente cariche inferiori siano ugualmente in grado di infettare». Da qui sgorga il solito triste iter: prendono il virus i più giovani, che spesso nemmeno se ne accorgono, che lo trasmettono a quelli più grandi, che un po' se ne accorgono, che lo trasmettono ai più anziani, che magari ci restano secchi. Una versione tragica della Fiera dell'Est, «che al mercato mio padre comprò».

Il prof Galli probabilmente ha le sue ragioni, che il cuore non conosce. Lui è una specie di indignato speciale, che da mesi bacchetta i nostri comportamenti sconsiderati. Anzi «a dir poco sciagurati», come di chi coltivasse «l'illusione di aver messo alle spalle qualcosa che invece abbiamo ancora davanti». Però siamo seri, guardiamoci attorno: gli italiani di questo scorcio di pandemia sono un popolo di stanchi, sfibrati, sottoccupati, divanizzati, deristorantizzati, depalestrizzati, disillusi, incacchiati. E forse anche con la sindrome dell'highlander: «Se il Covid non mi ha preso in un anno che va in giro, ormai l'ho sfangata», giuriamo di averla sentita più volte, questa frasetta sciocchina. Imporre a questo gregge senza immunità di divaricarsi ancora un po', allargando i confini di una bolla che molti di noi ormai non sopportano e non rispettano, è come comunicare a un maratoneta che vede il cartellone dell'ultimo chilometro che c'è un erroruccio, di chilometri ne mancano ancora diciotto, e saranno tutti in salita. Si rischia il crollo psicologico, anzi psichiatrico. Oppure, in alternativa, una risata isterica.

Le frasi di Galli scavano un solco enorme, quasi comico, tra la saggezza algoritmica della scienza e le nostre esistenze emotive, con la data di scadenza ben in vista.

Quasi un anno fa, quando pensavamo che il mondo stesse per finire e credevamo di poter contribuire tutti, ciascuno con il proprio buon esempio, a ritardare l'armageddon, pendevamo dalle labbra dei virologi, misuravamo con il metro della paura distanze fisiche e alla fine anche emotive. Oggi usiamo invece il metro delle nostre speranze, dei nostri desideri, e un Negroni sbagliato vale quanto uno Pfizer giusto.

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