Mi rivolgo ai sessanta e rotti partiti in corsa alle elezioni, alle coalizioni ipotetiche e futuribili, ai movimenti populisti, alle società civili, alla mezza dozzina di candidati premier: c’è ancora posto, in questa lotta feroce incistata sull’Imu, per parlare di giustizia? Non intendo della giustizia che ogni tanto qualcuno tira dentro per dovere d’ufficio,chi per disarmare l’invadenza dei magistrati, chi per vendicarsi delle leggi ad personam: con tutto il rispetto, questo non è parlare di giustizia.
È brutale regolamento di conti. Io intendo la giustizia superiore, che dovrebbe sacralizzare la nostra convivenza, risolvendo tutti gli attriti sociali, approdo sicuro per gli offesi e per gli umiliati. Parlo in altre parole della giustizia che non c’è. Nell’insensibilità generale, sembra che la nuda cronaca si sia presa la briga di strattonarci per il bavero, sbattendoci sotto al naso l’assurdo,se vogliamo limitarci a chiamarlo così. Un assurdo che dovrebbe quanto meno inquietare, ma che invece abbiamo imparato ad accettare come normale e inevitabile: questo per dire a che livello siamo ridotti.
Le ultimissime dai palazzi di giustizia: Ruggero Jucker è già uomo libero. Il cosiddetto rampollo della Milano bene, che nel luglio 2002 fece scempio a coltellate della fidanzata Alenya, lascia il carcere dopo dieci anni. Anche con lui, questa nostra giustizia bizantina e creativa si è comportata con la stessa logica filantropica di innumerevoli - troppi, veramente troppi - casi simili: trent’anni in primo grado,in appello subito giù a sedici con il patteggiamento, quindi giù a tredici per indulto, quindi giù a dieci per buona condotta. Bingo. In teoria sarebbe giustizia taglio umano e rieducativa, niente a che vedere con la giustizia tribale delle epoche fosche. Nella realtà ha tutte le sembianze di una giustizia ipocrita e ruffiana, che dispensa carinerie agli assassini e rabbia ai familiari degli assassinati. Meglio: ha tutti i connotati di un simpatico «Giochi senza frontiere», dove anche il più crudele omicida può superare sbarramenti, conquistare punti e giocarsi jolly, primo premio al più scaltro e vai con la sigla.
In questo magico regno dell’assurdo, si registrano poi coincidenze assurde.
La stessa giustizia umana e comprensiva ha mostrato poco fa i canini a Fabrizio Corona, il re dei cialtroni, il signore degli spacconi, il principe degli impiastri: sette anni per un volgare traffico di foto compromettenti e di ricatti sottobanco. Per carità: se il metro di giudizio è la simpatia, qualcuno può pure sentirsi autorizzato a rinchiudere Corona dentro lo Spielberg e a buttare via la chiave. Ma sarebbe ora di mettercelo bene in testa: questa non è giustizia. La giustizia è qualcosa di molto alto, molto raffinato, spesso molto doloroso e indigesto, perché per sua natura contrasta con le nostre pulsioni e il nostro istinto. La giustizia giusta e sostanziale deve essere forte, salda, chiara. Domandiamoci: dieci anni a Jucker e sette a Corona ( diventassero pure quattro o cinque), sul serio questa giustizia italiana non ha proprio nulla da rimproverarsi?
Non so se la nostra politica, che per l’ennesima volta va a rinnovarsi, sia ancora capace di affrontare la questione. Certo c’è l’uso distorto delle intercettazioni, certo c’è la separazione delle carriere, certo c’è la partitocrazia nel Csm. Ma c’è qualcosa di molto più complesso e di più urgente: il disperato bisogno d’equità degli italiani.
Siamo al punto che ormai la speranza non è più affidata alle sentenze, ma alla fantasia del destino. Nel caso di Jucker, sarebbe importante che lui stesso emendasse l’assurdo con un futuro adeguato. Ha di nuovo a disposizione l’arma fenomenale della libertà. Può farsi trovare subito in qualche anfratto della noia danarosa e mondana, nessuno glielo impedisce. Ma certo renderebbe tutto più accettabile e più giusto se invece decidesse di spendersi per cause nobili e altruiste, cercando un senso, impegnando almeno un po’ di quella vita che la Lotteria Italia gli ha generosamente regalato.
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