Gruppo di famiglia in un interno. Se si cerca tra le figure che il presidente Trump ha riunito alla West Wing si incontrano sostenitori dello Stato minimo, aspiranti tagliatori di teste al mostro burocratico, alfieri del protezionismo anti-cinese, falchi assertori della linea più dura sull'immigrazione. Fino ai pragmatici, come il nuovo segretario al Tesoro Scott Bessent, determinato a bilanciare principi del libero mercato e uso strategico dei dazi. L'impressione che se ne potrebbe ricavare è che Trump, nei prossimi cento giorni, dovrà gestire la difficile convivenza tra nazionalisti rétro e futuristi digitali. Non è una novità. I partiti americani, da sempre, sono delle federazioni che, intorno alla figura del Presidente, aggregano «pezzi» che tra loro «non c'azzeccano». Chi conosce il percorso politico di Trump, poi, sa che fu così anche al tempo della sua prima elezione. Forse con qualche velleità ideologica in più: quella di poter dare vita, attraverso Steve Bannon, a una sorta di «internazionale sovranista». Velleità presto concepita, ancor prima rimossa. Trump non si spaventa di fronte al proliferare di linee e propositi politici. A volte sembra suscitarli. Si fida così tanto delle sue capacità, che ritiene di poter in tal modo governare i fenomeni con più facilità. Perché il nuovo Presidente - può questo piacere o meno - vuole determinare la sostanza delle cose, ritenendo di avere la legittimazione democratica che glielo consenta.
C'è, però, un piccolo sassolino nell'ingranaggio che egli ritiene di controllare alla perfezione. Non c'è bisogno di cercare negli anfratti della sala per scoprire la presenza dei «colossi» tecnologici, il cui impero economico, nella più parte dei casi, supera il bilancio di molte nazioni. Sono i nuovi «oligarchi», come li ha definiti Joe Biden nel suo ultimo discorso. Omettendo di ricordare, però, che la loro presenza nelle stanze del potere, anch'essa non è una novità. Perché quegli stessi oligarchi hanno esercitato la loro influenza anche durante precedenti amministrazioni democratiche. Le Big Tech, d'altro canto, a chiunque sieda alla Casa Bianca, chiedono una sola cosa: contrastare le normative che regolano il mercato tecnologico, come il Digital Service Act europeo.
Qui sta il punto. Il discorso d'insediamento di Trump è stato un inno alla politica e alla sovranità statuale. Contro il «grigiume del deep state» e delle sue pretese; contro i fenomeni che ormai da tempo in America e in Occidente stanno erodendo gli spazi del politico. Se, però, vorrà passare dalle parole ai fatti, Trump dovrà provare a domare quelle forze titaniche oggi sue alleate, sottraendole all'arbitrio di pochi, per ricondurle nell'alveo del processo democratico. Non sarà né facile né scontato. Altre volte il Presidente ha pensato di governare fenomeni che poi l'hanno travolto. Se, però, dovesse riuscirci, indipendentemente dal giudizio sulle sue scelte di governo, si determinerà un'inversione di rotta rispetto al processo di depoliticizzazione che ha segnato l'ultimo decennio. E tra quattro anni il suo successore, che magari avrà tutt'altra impostazione politica, potrebbe doverlo perfino ringraziare. Se il gioco dovesse scappargli di mano, invece, un distopico feudalesimo digitale, del tutto alieno dalla democrazia così come fin qui l'abbiamo concepito, diverrà qualcosa di più che un semplice rischio.
È questa la partita più grande che è iniziata all'ombra della presidenza Trump.
Forse per questo l'impressione trasmessa al mondo dai primi giorni della nuova amministrazione è stata quella di un tempo nuovo, che va affermandosi senza incontrare soverchi ostacoli. Ma che ancora nessuno può affermare in che cosa esso si concretizzerà.
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