Nell'Italia post 11 settembre capitava di finire in cene in cui militanti ed elettori, soprattutto intellettuali, degli allora Ds brindassero al «compagno Bin Laden» e inveissero contro gli Usa «che se l'erano cercata» e contro quella «pazza e isterica» di Oriana Fallaci, fresca di La rabbia e l'orgoglio. Salto temporale e spaziale. Parigi, 10 novembre dello scorso anno. Organizzati da Jean Luc Mélenchon, fino al 2008 senatore socialista, hanno sfilato militanti della sinistra, donne velate e tipi barbuti contro l' «islamofobia», ma lo slogan che ha risuonato più spesso è stato «Allah Akbar». Nel mezzo, tra il 2001 e il 2019, centinaia di attentati islamisti in tutto il mondo, non solo in Europa, e centinaia di migliaia di vittime. Eppure la sinistra ha sempre faticato, anche di fronte all'ecatombe di Madrid e del Bataclan, a pronunciare la parola «I», che mai uscì dalla bocca dei presidenti Obama e Hollande: meglio parlare di «odio» e di «follia omicida».
Dobbiamo tenere presente questo filo-islamismo, neanche tanto nascosto e strisciante, della sinistra per capire le reazioni di giubilo al ritorno di Silvia Romano, o per meglio dire Aisha. Se infatti la ragazza non avesse sbandierato ai quattro venti la sua conversione, aggiungendo di essere stata trattata magnificamente da bande di terroristi islamisti, a cui il governo pare abbia regalato una cifra tra i 4 e i 40 milioni di euro, i progressisti sarebbero stati assai meno soddisfatti. Mentre invece la conversione, quasi più che la liberazione di Silvia, pare averli riempiti di gioia. Parliamo qui non dei ministri che hanno avuto il buon gusto di rinunciare alla sfilata (quello della Difesa, Guerini) ma proprio del popolo di sinistra, finalmente libero di esternare il proprio amore per l'islam, sia pure nella variante uso infanti come bombe umane. Vale allora la pena chiedersi da dove nasca il filo-islamismo della sinistra europea, quello che in Francia chiamano islamo-gauchisme, perché sarà destinato nel futuro a crescere. Individuiamo questi elementi; il mito del buon selvaggio, l'idea che l'islam sia la religione dei popoli sfruttati dall'«imperialismo», che trasforma Osama bin Laden in un nuovo Che Guevara e Al Shabaab nei nuovi vietcong. E come ai tempi del vietcong, l'antiamericanismo, un disprezzo antropologico per il popolo yankee, solo attenuato quando alla Casa Bianca siede un democratico ed esplosivo quando c'è un repubblicano. L'ostilità a Israele, che sempre c'entra, cioè l'antisionismo, difficile ormai da distinguere dall'antisemitismo. Poi un generico anticapitalismo, come se l'islam «anti imperialista» fosse più disposto dell'occidente a esperimenti socialisti - che nei paesi islamici veri e non immaginari non è però dato a vedere. E infine, la più importante variante, un nichilismo antioccidentale, cioè il disinteresse se non il disprezzo nei confronti della nostra cultura. Nozione, quella di occidente, che non nasce con la guerra fredda come crede qualcuno, ma dalla battaglia delle Termopili, che fonda l'identità occidentale da cui si svilupperà la tradizione greco-giudaico-romana e cristiana.
Lo stesso disprezzo dell'Occidente, che ripudiando se stesso è diventato molliccio e decadente, spiega poi perché molti giovani, anche italiani, preferiscano ormai convertirsi spontaneamente all'islam, in cui percepiscono una religione e un modo di vita fondati su solidi valori: quelli che l'Occidente ha dismesso, nella sua delirante esaltazione dell'altro e della diversità.
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