Quando un ambiente diventa tossico, le api sono le prime a scomparire. Questa legge di natura, in queste ore, sembra applicabile anche alle dinamiche sociali del nostro Paese. Mentre Landini, la Cgil e altre sigle sindacali, dopo lo sciopero generale, promettono di occupare le piazze altre quindici volte da oggi al prossimo Natale, arriva da Pontedera la notizia che l'Ape, il calessino a motore prodotto dalla Piaggio, svolazzerà verso l'India. Troppo costoso, spiegano, adeguare il piccolo veicolo a tre ruote alle nuove normative europee. Certamente la colpa non sarà dell'ondata di proteste, tra le più massicce degli ultimi decenni, lanciata dal sindacato, ma è certamente significativo, ed anche simbolico, che un mezzo, emblema del boom economico dell'Italia, incarnazione di quella micro impresa che, non potendosi permettere un autocarro vero e proprio, ha costruito con sacrifici il nostro benessere cavalcando quell'incrocio tra un motorino e una carriola, abbandoni oggi la penisola per migrare verso un paese che di transizione ecologica ed emissioni si occupa poco o nulla.
Se tra il troppo poco dell'India e il troppo dell'Europa si fosse trovato un giusto equilibrio, l'Ape avrebbe ancora solcato per qualche tempo le nostre strade, non fosse altro per ricordare a tutti con quale inventiva, e fatica, è stato costruito il nostro modello di benessere, che oggi scricchiola più che mai.
Quello che manca davvero nelle piazze in cui si inneggia alla rivolta sociale, cosa mai prudente, come ha ricordato questo giornale, è infatti una ricetta economica che arresti il declino e tenga conto della realtà che ci circonda. Nelle rivendicazioni, mi si lasci dire, oscillanti tra lo strumentale e il velleitario, vi è infatti un lungo elenco di spese e di diritti, mentre mancano totalmente le colonne delle entrate e dei doveri. Più sanità, più servizi sociali, più stipendi, meno lavoro, meno flessibilità, meno tasse. Obiettivi in sé condivisibili, se fossero accompagnati da una seria piattaforma riformista volta a ridare competitività alla nostra manifattura. E, possibilmente, se tale piattaforma fosse accompagnata almeno da comportamenti coerenti. Non riesco infatti a dimenticare che mentre la Cgil denunciava il caro energia che pesa sulle nostre merci, lo stesso sindacato manifestava a Savona contro un rigassificatore indispensabile a ridurre le bollette di imprese e famiglie. Insomma, buona parte del sindacato italiano, evidentemente traviato da una deriva ideologica che offusca la luna, continua a guardare ed inveire contro il dito di una Legge di Bilancio, certo prudente, sicuramente non allarmante, tralasciando totalmente di considerare i veri problemi che affliggono l'Europa e mettono a rischio il nostro sistema di garanzie economiche e sociali. Il continente, infatti, che oggi rappresenta circa il 23% della ricchezza prodotta dal mondo, potrebbe passare a produrne poco più del 15% entro il 2030. Dunque meno soldi, meno welfare, meno sicurezza sociale. Tra le prime venti aziende del mondo, troviamo colossi dell'informatica Usa e banche cinesi, ma nessun marchio europeo e men che meno uno italiano.
Di fronte ad un quadro di estrema preoccupazione per i cambiamenti in atto che vedono un modello sociale ed economico messo in discussione, la Cgil rilancia nelle piazze con parole d'ordine che sembrano uscite da qualche polveroso ciclostile degli anni '70. Peccato che allora si protestasse davanti ai cancelli della Fiat a Mirafiori, oggi per farlo davanti a quelli di Stellantis si dovrebbe migrare all'estero, dove, nel silenzio delle parti sociali, è stata trasferita la produzione.
Così, mentre il ricordo dell'Ape ci riporta alla memoria quella grandezza industriale evaporata e gli slogan di Landini rinverdiscono gli anni della contestazione e delle bandiere rosse, nelle piazze dei rappresentanti dei lavoratori il grande assente appare proprio il lavoro, quello futuro.
Con pagine e pagine di stampa vergate nell'esegesi del nuovo autunno caldo, non sono riuscito a trovare una riga circa quello che uno dei più grandi sindacati europei chiederebbe alla nuova Commissione, insediatasi in queste ore, per arginare il declino economico dell'Unione stessa.
E dire che oggi l'economia dipende assai più da Bruxelles che da Roma, così come il benessere e i diritti di molti cittadini e lavoratori. Così come il lavoro e, dunque, il benessere dipendono sempre di più dalla capacità di un sistema di essere competitivo sul digitale, sull'innovazione, sulla ricerca. Tutti terreni in cui l'Italia e l'Europa pericolosamente stanno scivolando in basso anno dopo anno.
Nessuno mette in discussione il diritto dei sindacati di manifestare e scioperare. Io però vorrei mettere in discussione, questo sì, la qualità delle rivendicazioni di una rappresentanza sociale strabica, con l'elmetto in testa quando incontra il governo per pochi miliardi contenuti nella legge di Stabilità e le braghe calate invece da troppo tempo con le istituzioni, colpevoli della gigantesca crisi dell'automotive, ad esempio.
E allora, se
sciopero deve essere, sia verso il giusto obiettivo: riportare l'Ape nell'alveare europeo, ridiscutendo le regole sbagliate, con l'interlocutore appropriato e non con quello politicamente più conveniente per ragioni ideologiche.
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