Per gli americani sono «le 26 parole che hanno creato Internet». Stabiliscono un principio: i fornitori di servizi digitali, social media compresi, non sono responsabili di ciò che viene pubblicato da terzi sulle loro pagine. La norma, che prevede eccezioni solo nel caso di violazione della proprietà intellettuale e di atti criminali, è il cuore della cosiddetta Section 230, legge approvata nel 1996 e base della regolamentazione della Rete negli Stati Uniti.
Per capire gli atteggiamenti di Elon Musk o decisioni come quella di ieri di Mark Zuckerberg, che ha abolito i programmi di fact-cheking su Instagram e Facebook, bisogna partire da qui, dall'«american way of internet». E tener conto di un altro fattore: se sui temi della difesa gli europei vengono da Venere e gli americani da Marte, qualcosa di analogo si può dire per la comunicazione digitale. Gli approcci tra i due dell'Atlantico non potrebbero essere più diversi.
È vero che anche l'atto legislativo principale del Vecchio Continente, il Digital Services Act, approvato da Bruxelles nel 2022, stabilisce in termini generali che il fornitore di servizi internet non è responsabile delle opinioni di terzi. Il principio è però accompagnato da un serie di obblighi stringenti riservati soprattutto a piattaforme online e motori di ricerca di rilevanti dimensioni (oltre i 45 milioni di utenti): una volta ricevuta la notizia di contenuti potenzialmente illegali, grazie a programmi di moderazione e all'utilizzo dei cosiddetti «trusted flaggers», o in italiano «segnalatori attendibili» come organizzazioni o gruppi di esperti riconosciuti ufficialmente dagli Stati, gli internet providers devono darsi subito da fare per la rimozione dei contenuti stessi. Pena la perdita dell'immunità e la possibilità di multe salatissime.
Al di là dell'Oceano l'accento è posto sulla più assoluta libertà di manifestazione del pensiero, protetta dal primo emendamento della Costituzione. In Europa si è scelto di contemperare la libertà di pensiero con la tutela di altri valori considerati sullo stesso livello, come la lotta alla disinformazione o alla discriminazione razziale e la repressione dell'incitamento all'odio.
Approcci diversi, come detto. E c'è un esempio paradossale in grado di illustrare al meglio questa diversità. Per l'assemblea legislativa del Texas, il più americano tra gli Stati americani, la tutela della libertà di pensiero sui social è una priorità da tutelare con tale forza da giustificare una scelta normativa estrema. Nel 2021 Senato e Camera dei Rappresentanti texani hanno approvato un provvedimento, il cosiddetto House Bill 20, che proibisce ai social di censurare le opinioni dai residenti nello Stato, prescindendo dal merito delle posizioni espresse. Da notare, tra l'altro, che il senatore Marco Rubio (nella foto), appena scelto da Donald Trump come nuovo segretario di Stato, ha proposto qualcosa di analogo a livello federale.
Dove è il paradosso? Semplice: se l'utente di un social in Texas nega l'Olocausto e viene bloccato, il social colpevole della censura potrebbe essere soggetto a un procedimento giudiziario in Texas.
Se invece il social non agisce, il procedimento giudiziario contro di lui potrebbe essere avviato in Germania, il Paese che su questi temi ha la legislazione più severa.Un irrisolvibile rompicapo giuridico-culturale, che fa appena intuire quali potrebbero essere le difficoltà di una comune regolamentazione transatlantica dell'intelligenza artificiale.
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