Il Covid19 è duro a morire. Dopo due mesi si lockdown questa è una delle poche certezze che abbiamo. Eppure, l’estate potrebbe mettere a dura prova il nemico invisibile e rallentare, una volta per tutte, la corsa della pandemia. A dirlo è uno studio dal titolo "Climate Affects Global Patterns Of Covid-19 Early Outbreak Dynamics" condotto da un gruppo di esperti guidato da Francesco Ficetola e Diego Rubolini, professori al dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell'università Statale di Milano. In cui si evince che il virus si sviluppa in maniera più rapida a temperature piuttosto basse. Tanto che, la sua diffusione è avvenuta, in particolar modo, da est a ovest di una specifica fascia climatica, dove si trovano Cina, Europa e Stati Uniti d’America.
Come è stato effettuato lo studio
Un lavoro di confronto dati che è riuscito a portare alla luce evidenze che confermano le varie posizioni di esperti e virologi che da quando il virus ha iniziato a diffondersi hanno ipotizzato che il caldo avrebbe potuto rallentare la sua corsa. L’analisi, condotta dai professori della Statale di Milano, è partita con un recupero dati. Gli studiosi hanno raccolto il numero di casi di Coronavirus registrati in tutti i paesi del mondo per poi andare ad osservare quale sia stato il tasso di aumento degli individui positivi al virus nelle varie nazioni. Numeri che poi, gli studiosi, hanno messo a confronto con i dati relativi alla temperatura e al livello di umidità presente in quegli stessi paesi nei giorni precedenti all’inizio dell’epidemia. Lo studio osserva il numero dei casi di contagio piuttosto gravi. Questo perché il numero degli asintomatici totali è un dato difficile da testare. E i cui numeri potrebbero avere una valenza solo in pochi paesi del mondo, come la Corea del Sud o l’Islanda, in cui i test effettuati sono talmente estesi da riuscire ad individuare anche un numero importante di casi positivi totalmente asintomatici.
I risultati
L’impressione è che i casi gravi diminuiscano quando le temperature sono più elevate.
“Non diciamo che il virus si sviluppa di più alle alte o alle basse temperature, quello che osserviamo è che l’aumento del numero di casi è maggiore, è stato maggiore nel mese di febbraio/marzo, nelle aree con temperature più fredde. Vale a dire, nelle aree europee dove la temperatura si aggirava intorno ai cinque gradi. Tra gli zero e i dieci gradi”, ci spiega il Francesco Ficetola. Il focus dello studio è stato misurare la velocità di espansione dell’epidemia nel periodo in cui questa era particolarmente rapida in alcune aree del Nord America, dell’Europa e prima in Cina che si trova all'incirca nella stessa fascia climatica. Ovvero, le zone temperate dove all’epoca era inverno. Il risultato al quale hanno portato le analisi, lascia spazio a diverse osservazioni. “Il fatto che nei paesi in cui si hanno condizioni climatiche calde si osservi un numero ridotto di casi positivi è anche dovuto al fatto che il sistema immunitario umano funziona meglio quando le condizioni meteorologiche sono più miti”, osserva Ficetola. Si tratta dello stesso principio che ognuno di noi può confermare per quanto riguarda l’influenza. Detta spesso “stagionale” proprio perché colpisce in un determinato periodo dell’anno che, solitamente, è l’inverno. Mentre, è più raro (ma non impossibile) che la si contragga in periodi caldi quali la primavera e l’estate. Questo, secondo il professore, avviene perché il nostro sistema immunitario funziona meglio quando le condizioni climatiche sono più calde e l’individuo è meno sottoposto a situazioni di stress.
I risultati dello studio sono in linea anche con altri tipi di test effettuati sui virus. “Esistono infatti, diversi studi che hanno misurato la sopravvivenza di questo virus a diverse temperature e condizioni di umidità”, conferma il professor Francesco Ficetola. Tutti i virus in realtà, sopravvivono meglio, al di fuori del corpo, quando la temperatura è bassa. Paradossalmente i virus che all’interno del corpo umano sopravvivono e si proliferano a temperature piuttosto elevate (anche intorno ai 37 gradi), al di fuori del nostro organismo rischiano di morire se si trovano a dover resistere a temperature che toccano i 30 gradi. “All’aria aperta un virus può resistere, a temperature di circa 5 gradi, anche per alcuni giorni, quando invece il termometro supera di 20 gradi, normalmente il virus è in grado di sopravvivere solo alcune ore”, spiega il professore. Che poi ci tiene a precisare che i 30 gradi non agiranno come l’acqua sul fuoco e non possono essere considerati come il momento in cui il virus scomparirà per sempre. Il Covid persiste e sopravvive nell’ambiente, anche se per meno ore rispetto a quanto non farebbe d’inverno, ma questo basta a mantenere vive le possibilità di contrarlo. Per il verificarsi di una morte istantanea, secondo alcuni studi specifici, è necessario che il virus vada incontro a situazioni con temperature che superano gli 80 gradi. “Quello che facciamo quando sterilizziamo i nostri indumenti in lavatrice a temperature elevatissime”, semplifica Francesco Ficetola.
Se, da una parte, le evidenze dello studio fanno ben sperare per quanto riguarda la situazione dell’Italia nei prossimi mesi, dall’altra i risultati potrebbero anticipare i nuovi bersagli del Covid19. Alcune zone dell’emisfero australe tra cui America Meridionale, Sud Africa, Australia e nuova Zelanda, potrebbero presto presentare condizioni favorevoli alla diffusione del virus nei mesi che vanno da giugno a settembre. Lo stesso periodo in cui il nostro Paese potrebbe vedere un rallentamento dell’epidemia causato da un aumento delle temperature. Situazione che però, potrebbe variare nuovamente con il ritorno dell’inverno, a partire da dicembre.
Gli altri studi
Clima, umidità e latitudine sono i tre dati principali che collegano le zone del mondo con più contagi. Anche uno studio realizzato da alcuni ricercatori dell'Università del Maryland, scienziati che appartengono al Global Virus network, afferama che esiste un'interessante correlazione tra la diffusione del virus e le caratteristiche climatiche dei luoghi in cui si sta maggiormente diffondendo. Si indica che i paesi più colpiti si trovano nella fascia compresa tra i 30 e i 50 gradi di latitudine a nord. Paesi in cui nella fase iniziale dell’epidemia le temperature oscillavano dai 5 agli 11 gradi, con un tasso di umidità compreso tra il 50 e l’80%. Al contrario si evince che, il Coronavirus non si è diffuso con la stessa violenza nelle aree dell’emisfero occupate dalla Russia e dal Canada, né nelle zone dove vi sono temperature molto elevate come, ad esempio, l’Africa.
Il caso degli africani
Apparentemente in alcune aree europee i cittadini africani sono stati meno colpiti dal Coronavirus. Eppure, se andiamo ad osservare le statistiche di New York, città in cui il tasso di persone di origine africana è molto alto, i neri sono i più colpiti. Questo, al contrario di quanto si è potuto pensare in questi mesi, facendo più volte riferimento al diverso tipo di anticorpi o alle differenti caratteristiche di razza, è dovuto alla diversa assistenza sanitaria che le persone di colore spesso hanno negli Stati Uniti. Paese dove la sanità è ancora a pagamento e i neri solitamente detengono redditi inferiori, in percentuale, rispetto ai bianchi e, di conseguenza, una scarsa assistenza sanitaria. Ad ogni modo, se si va ad analizzare la situazione nel continente africano il numero dei casi è molto inferiore rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali e il motivo di questo attacco lieve del Coronavirus sarebbe riconducibile ad una spiegazione. “La causa di questa netta differenza potrebbero essere essenzialmente una - spiega Ficetola - ovvero la questione dell’età. Le persone che hanno un’età più elevata sono le più facilmente attaccabili dal virus e, tendenzialmente, l’età media nei paesi africani è inferiore. Stessa cosa vale per le persone che emigrano dall’Africa in Europa. Gli immigrati sono per la stragrande maggioranza persone in età molto giovane”.
Quanto è servita la quarantena
Un’altra parte dello studio osserva i movimenti del Coronavirus prima che i paesi adottassero le misure di contenimento del virus. Nel primi cinque/sei giorni che seguirono la scoperta dei primi casi a Vo Euganeo e nel Lodigiano. Le ricerche rispondono ad una domanda ben precisa: Cosa sarebbe successo se i paesi non avessero messo in atto delle misure di controllo? Nei giorni in cui gli Stati permettevano ancora la libera circolazione delle persone, non si erano attrezzati con l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, non avevano messo in atto le regole sul distanziamento sociale, secondo lo studio che ha analizzato la gran parte delle aree europee il tasso di crescita del Covid19 si aggirava intorno al 30% giornaliero. “Un tasso altissimo - ci spiega Ficetola - tanto per dare un’idea, adesso, dopo due mesi di quarantena, il tasso di crescita giornaliero in Italia si aggira intorno all’1%.” La chiusura avrebbe ridotto il tasso di diffusione nettamente di più rispetto a quanto potessero essere all’inizio le differenze tra le aree più calde e le aree più fredde del mondo.
“Ci è voluto del tempo, ma la chiusura ha rallentato il modo drastico i contagi in maniera pressoché allineata in tutti Paesi che abbiamo analizzato, che riportano dei tassi di crescita che rimangono comunque sotto al 5% giornaliero”, precisa il professore.
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