Il talento di Mr. Manley e le sorti dell'"italianità"

Ora il tema dell'italianità è al primo posto, nel dibattito del dopo Marchionne

Il talento di Mr. Manley e le sorti dell'"italianità"

«Quel che va bene alla Fiat, va bene all'Italia». È uno dei motti più noti dell'Avvocato. Un concetto semplice, ma non banale. Perché dietro a un postulato come questo si celava la natura di quasi un secolo di rapporti tra la Fiat e lo Stato italiano. Da cui il dibattito, mai concluso, sul segno finale del saldo dare-avere tra gli Agnelli e il popolo del Belpaese.

Basta questa considerazione a ricordare che la Fiat è l'impresa che più ha segnato la storia industriale del nostro Paese, e il suo sviluppo, al punto da far parte integrante della nostra società, della cultura di un italiano. In questo senso il fatto che il passaporto del nuovo amministratore delegato del gruppo, che pure ora si chiama Fiat-Chrysler, non sia stato emesso in Italia, bensì nel Regno Unito, pone il tema dell'italianità al primo posto nel dibattito del dopo Marchionne.

Anche perché la Fiat non ha avuto molti top manager: negli ultimi 80 anni quelli che hanno inciso sono solo tre: Vittorio Valletta, Cesare Romiti e Sergio Marchionne. E pensare che il quarto si chiami Mike Manley non è di facile assimilazione. Che sensibilità avrà Mr. Manley, il capo del marchio Jeep nel mondo, per la produzione negli stabilimenti italiani? E per le conseguenze occupazionali, sindacali, politiche che una sua scelta potrà scatenare nel Paese?

Se al vertice del gruppo fosse stato chiamato il capo della zona Emea (Europa, Medio Oriente e Africa), che si chiama Alfredo Altavilla, già si sarebbe partiti con un piede diverso. Certo, Marchionne aveva già dato una bella scrollata alle vecchie liturgie, specie sui contratti, rompendo con la Cgil e con la Confindustria. Cambiando il nome e trasferendosi ad Amsterdam. Ma restando sempre uno che conosceva il significato della parola Fiat fin da bambino.

Ora che succederà? Il tema dell'italianità è centrale non certo in chiave «Alitalia»: non si tratta di difendere la bandiera. Il punto è che l'auto, pur ridimensionata e matura, resta il settore trainante della ripresa in Italia. Senza le nuove immatricolazioni (trainate da due vecchie glorie come Panda e Punto) non avremmo avuto una fetta determinante del Pil che abbiamo recuperato dal 2015. Per questo sarà determinante capire se al nuovo capo di Fca continuano a interessare le Panda di Pomigliano e le Jeep Renegade che Marchionne ha portato a Melfi. E se a Mirafiori arriverà finalmente l'atteso nuovo modello. O se invece, all'interno di una strategia globale, da uomo di prodotto qual è, Manley deciderà di seguire altre strade. Come quelle, per esempio, che un'alleanza con un produttore asiatico potrebbero imporre in termini di marchi e di segmenti di consumatori. Determinante sarà il ruolo di John Elkann. Ma in un comparto che si sta muovendo con una accelerazione crescente verso l'alta tecnologia e nuovi motori, e che dunque richiederà grandi investimenti, fino a che punto la famiglia potrà continuare a considerare le fabbriche italiane un punto fermo nel futuro del gruppo?

Ci vorrà del tempo per capirlo, ma non troppo, visto la rapidità dell'evoluzione in corso nell'automotive. Vedremo.

Di certo i tanti che in queste ore, specialmente dal mondo sindacale, hanno criticato Marchionne confondendo la sua natura di modernizzatore per arroganza padronale, potrebbero pentirsene amaramente. E rimpiangere il manager che non hanno mai amato.

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