Tra le vele di Scampia prima dell’abbattimento

Le condizioni delle vele alla vigilia dello smantellamento e lo stato d’animo degli occupanti e di chi ci ha vissuto per anni

Tra le vele di Scampia prima dell’abbattimento

Dei casermoni spettrali, un ammasso di rovine che pulsano di vita. Alla vigilia della demolizione, le vele di Scampia sono ancora in parte abitate. Ma il clima è desertico. È come se si fosse fermato il tempo tra quei viali dove, ora, il suono che prende il sopravvento è un surreale silenzio. Il vento spira tra le porte senza finestre di alloggi vuoti. Tra un edificio e l’altro si vedono persone intente a traslocare. Gli ultimi piani sono quasi ovunque disabitati. Ma se da un parte c’è chi va via, dall’altra c’è chi entra, occupando abusivamente case fatiscenti. Chi invade gli alloggi lasciati liberi, preferisce i piani più bassi. Sono quattordici i livelli fatti di abitazioni e nessun ascensore è funzionante nelle vele di Scampia, da tempo. La vela verde, oggi, dovrebbe essere completamente vuota. Stando all’ultimo termine annunciato dal sindaco di Napoli, Luigi Dei Magistris, entro questo mese dovrebbe essere demolita. Ma all’interno ci sono ancora delle famiglie: “Cinque”, ci dicono. Si tratterà del primo abbattimento, dopo quelli di 20 anni fa. Secondo il progetto di riqualificazione ‘Restart Scampia’, dovranno andare giù anche la vela gialla e la rossa, che è stata per metà invasa dai rom. L’unica che resterà in piedi sarà la vela celeste, che dovrà essere riqualificata per fare spazio ad uffici pubblici. Sarà la sede della Città metropolitana di Napoli.

La nuova vita di chi ha lasciato le vele

Nella vela celeste ci ha vissuto per circa 40 anni Antonietta. Un anno fa traslocò in uno dei nuovi alloggi popolari di via Gobetti. “Oggi proviamo la soddisfazione di stare in una casa vera. Viviamo meravigliosamente. Io sono rinata. Quando vado dalle mie nipoti nelle vele non mi trovo più”, commenta. Oggi le vele per lei rappresentano solo il suo nuovo panorama. Le osserva dalla finestra della sua abitazione. Conserva i ricordi, che ne fanno una memoria storica. E ripercorre così le origini: “Quando le abbiamo avute erano belle case, tuttora potrebbero essere belle, dentro. All’epoca era diverso perché ci conoscevamo tutti. Per esempio, ci organizzavamo noi donne per pulire. Non c’era il degrado che c’è ora. Però, poi, sono cominciati gli sfratti, i traslochi, e man mano che uscivano le vecchie famiglie, entravano le nuove”. “All’inizio – racconta – c’erano tutte le comodità. C’erano i citofoni, gli ascensori funzionavano, le buche per la posta”. Per Antonietta, se le Vele hanno raggiunto lo stato di degrado attuale è soprattutto per l’inerzia del Comune: “Se si dà uno stabile, bisogna anche mantenerlo in ordine. Poi c’erano troppe persone. E il ‘popolino’ in un unico posto non va bene. Solo nella vela celeste ci sono 280 famiglie. E ci sono, solo lì, 12 ascensori, che non funzionano. Per chi stava al 14esimo piano era doloroso continuare. È difficoltoso, anche con un po’ di spesa, salire fino agli ultimi piani”. Di sovraffollamento parla anche la relazione redatta nel 2016 per la fattibilità del progetto di riqualificazione ‘Restart Scampia’. Secondo le stime di allora, in seguito al trasferimento in nuovi comparti edilizi popolari, nelle vele restavano circa un centinaio di famiglia. Formate da due edifici in cemento armato affiancati e collegati da vialetti pensili e passerelle centrali, ognuna aveva ospitato in passato fino a 250 famiglie, “280” secondo gli occupanti. Realizzate con materiali e tecniche scadenti, con l’incuria sono immediatamente finite nel degrado.

Le storie di chi vuole riscattarsi

Nel vuoto istituzionale, con l’assenza di servizi di prossimità, il sovraffollamento e l’abbandono, è nato un ghetto dove ha trovato spazio quella criminalità che, soprattutto per lo spaccio di stupefacenti, ha reso le vele un simbolo negativo del quartiere e di Napoli. “A volte la disperazione ti porta pure ad andare sul cielo. Perché qua c’è la fame. Non c’è lavoro, non c’è niente. A questi giovani li portano proprio loro a sbagliare”, afferma Antonietta. Maurizio è uno di quelli che in certi giri sbagliati ci è finito. Oggi ha 46 anni, la metà dei quali passati in prigione. “Sono stato 20 anni in carcere, per crimini comuni”, rivela. “Se vedessi la mia famiglia, non penseresti mai che c’entrano qualcosa con me”, ci tiene a evidenziare. Dice di avere 5 figli. Racconta che lo stato di bisogno l’ha portato ad imboccare percorsi illegali: “Dovevo dare da mangiare alla mia famiglia. Voi che avreste fatto?”. Con il suo diploma potrebbe fare il cuoco. Ha tentato di dare una svolta alla sua vita andando a lavorare all’estero, ma è ritornato: “Volevano sfruttarmi e sono tornato qui”. “Su di lui hanno lucrato, e su tanti altri di noi che abbiamo fatto le sentinelle all’epoca, 20 anni fa. Poi c’è stata la conseguenza della galera. Chi ha guadagnato i soldi non è stato il ragazzo, che è stato solo una vittima, ma il sistema”. Ad affermarlo è Rosario Caldore, esponente del Comitato Vele, l’organizzazione fautrice della battaglia intrapresa per l’abbattimento delle vele. Rosario ha 39 anni e ha vissuto in quegli stabili fino a una decina di anni fa, fino al trasferimento con la madre in un nuovo alloggio popolare situato nei pressi. Sul territorio è conosciuto anche per essere il fratello di un noto cantante neomelodico, Luciano Caldore. “Mio fratello aveva un talento naturale ed è riuscito a uscire fuori da qui, ha trovato la sua strada e ce l’ha fatta. Ma chi non ce l’ha un talento naturale cosa deve fare? Non può avere altre possibilità?”, commenta. “Quando c’è stata la faida di camorra del 2004, che ha fatto 120-130 morti, lo Stato in due mesi ha distrutto tutte le piazze di spaccio. Ora, se ci facciamo un giro per Scampia, le piazze non esistono più perché lo Stato ha deciso che qua non ci doveva stare più il ghetto”, ha proferito nei giorni scorsi dalla piccola platea di disoccupati che, in uno degli alloggi della vela gialla, dove ha trovato spazio la sede del Comitato Vele, ha accolto il segretario per il settore trasporti e logistica della Confsal, Piero Serbassi, arrivato nel quartiere con altri delegati locali.

Abbattimento delle vele come occasione di lavoro

L’abbattimento delle vele rappresenta anche un’occasione di lavoro, che chi vive da anni a Scampia vorrebbe sfruttare per riscattarsi. “La casa è la prima cosa, perché un tetto ci deve stare. Però, se teniamo un tetto e non abbiamo da mangiare, alla fine stiamo sempre in alto mare”, è la riflessione ad alta voce di Caldore. “Noi vi diamo gli strumenti e voi gestite”, ha promesso Serbassi. L’idea è quella di realizzare uno sportello di servizi e di formare le persone del posto per gestirlo. Ma c’è anche la volontà dei disoccupati di creare un gruppo sindacale che si occupi di garantire l’inserimento lavorativo delle persone di Scampia nei cantieri che dovranno sorgere per l’abbattimento. “Avremo un’opportunità dopo l’abbattimento della prima vela - ha asserito Caldore - Abbiamo fatto una lotta con il Comune di Napoli e con l’ottava municipalità per farci dare una clausola sociale, per fare in modo che il 30% dei lavoratori impiegati nei cantieri sia del posto”. Vicino a lui c’è Maurizio, e ci sono altri uomini di Scampia in cerca di un occupazione. Luigi ha 52 anni e 4 figli. “Per fortuna i miei figli sono rimasti fuori dal sistema”, dice sollevato. Ha abitato con la sua famiglia nelle vele. Circa 12 anni fa traslocò nelle vicine case popolari, quelle note come “case della metropolitana”. Ha fatto sua l’arte di arrangiarsi, e così ha cresciuto i suoi ragazzi e tira ancora a campare. Tra le vele lo chiamano tutti “Gigiotto" e, ogni tanto, mentre dibatte, intona qualche canzoncina neomelodica. “È il modo che uso per tirarmi su”, dice. Il suo talento artistico viene fuori anche con le poesie che scrive. Le conserva sul cellulare e, all’occasione, le recita ai familiari e agli amici.

Soddisfazione e malinconia in vista dell’abbattimento

Dai volti, dalle voci, dalle parole della gente, traspare il fermento di questo momento storico, per una Scampia che oggi vive l’agonia delle sue vele, destinate – chissà quando –a una fine certa. Lo stato d’animo comune sembra essere quello della soddisfazione per la distruzione di palazzoni in cui si è vissuto e ancora si vive in modo indegno. Ma si percepisce anche tanta malinconia, perché, per chi ci ha abitato e per quei superstiti che ancora ci sopravvivono da molti anni, sono un pezzo di vita che dovrà scomparire. “Io pure sono affezionato a queste mura. A pensare di vederle buttare giù, sento un po’ il dispiacere, perché mi riporta indietro nel tempo, alla mia infanzia, anche se non ho avuto tante possibilità di vivere un’infanzia felice”. Sono le parole di Davide Cerullo, che con la lettura e la scrittura ha superato un passato da criminale al soldo del clan Di Lauro. Nelle vele ci è entrato da piccolo e la camorra l’ha arruolato nel “sistema” quando aveva solo 10 anni. Davide era un fedelissimo del boss. Poi, dopo la galera, è arrivata la redenzione, grazie al Vangelo e all’incontro con quelle che definisce “le persone giuste”: “Loro erano felici e non avevano quello che avevo io, i miei soldi, le mie donne, i miei vestiti, le mie moto, il rispetto. Mi chiedevo come fosse possibile”. Scopre i libri, che non aveva mai letto prima. E Pasolini. “Che mi disturba”, dice. Oggi Davide è impegnato nel sociale. A Scampia ha fondato, un anno e mezzo fa, l’associazione L’Albero delle Storie. Sono una ventina i bambini che per due giorni a settimana accoglie con le mamme in uno spazio allestito per i piccoli in un locale al pianterreno di una torre di abitazioni a pochi metri dalle vele. Il suo piccolo ufficio ha le pareti tappezzate di immagini. Tra le tante, mostra con fierezza una foto che lo immortala con una capra. “Mio padre qui era un pastore”, spiega. All’esterno sta piantando degli alberi, in uno spazio verde che era rimasto per decenni abbandonato e che era diventato una discarica. I rifiuti da cui l’ha ripulito sono ora accatastati in un angolo, in attesa che il Comune vada a raccoglierli. “Questa spazzatura sta qui da due o tre mesi”, sbotta. “Stiamo cercando di creare un clima di normalità – dice - quindi, abbiamo pulito noi, abbiamo iniziato a piantare degli alberi. Ogni albero ha un nome. Vogliamo rendere questo posto accessibile, semplicemente per far giocare i bambini”. Le vele sono poco distanti, si vedono in secondo piano, dietro a una fessura dove ha riposto dei libri, messi a disposizione di chiunque voglia leggerli. Lui che ci è cresciuto in quei triangoli di cemento armato, così descrive questo momento in attesa del loro abbattimento: “Io sono un po’ triste, ma per natura, per il fatto che me li porto tatuati sulla pelle. In queste vele ci ho fatto tutto: il bene, il male, mi sono innamorato, il mio primo bacio, le fughe dalla polizia, i giochi, le sette pietre. Noi giocavamo alle sette pietre, le mettevamo l’una sull’altra, le buttavamo giù con un pallone, poi prendevamo quel pallone e rincorrevamo i nostri amici. Il nascondino dietro ai pilastri”. Poi fa un salto indietro, nel suo passato, fatto di un’infanzia terminata precocemente e di una giovinezza impregnata di soldi e criminalità: “Io a 10 anni sono entrato a far parte della malavita organizzata, ero già “latitante”, la polizia già mi cercava. Guadagnavo 100 mila lire al giorno. A 16 anni mi arrestano per la prima volta. E quando esco, dopo 3 giorni, arrivando alle vele, mi fanno festa sparando i fuochi d’artificio. Quella era una conferma che io dovevo far parte di questa vita infame, la vita del camorrista, che è una vita di merda. Poi a 17 anni mi hanno sparato in un agguato, perché ero diventato un pezzo di malavita, e mi sono fatto 40 giorni di ospedale. A 18 anni e un giorno mi arrestano e entro nel carcere di Poggioreale, nel padiglione Avellino, stanza 31, dove c’erano i più grandi boss della camorra. Eravamo 25 persone in una stanza. E lì, un giorno, tornando dalla mia ora d’aria, sulla branda trovo il Vangelo. Lì per un attimo ha provato la sensazione di una possibilità di libertà”. Davide è tornato a Scampia, dopo un periodo trascorso al Nord: “Sono tornato 5 anni fa, perché ho pensato di dare una mano, e che fosse normalissimo restare nella propria terra, resistere nella propria terra e fare delle cose normali”. Le vele le definisce un “non luogo”: “C’è l’abbattimento delle mura, c’è l’abbattimento delle vele. Queste vele già nate avvelenate, perché sono piene di amianto. Purtroppo noi abbiamo degli amministratori, abbiamo un sindaco, un Comune, che si è preoccupato di abbattere il cemento. Ma prima di abbattere i muri, bisogna abbattere quell’impossibilità che non permette a un bambino di essere un bambino a Scampia”.

Il turismo tra le “vele di Gomorra”

Oggi, con Gomorra, le vele sono diventate meta di turisti. Qualcuno recensisce anche le visite sui siti internet di viaggi. “Scampia era, è, famosa, per essere la più grande piazza di spaccio d’Europa, poi è arrivato Gomorra che l’ha resa visibile agli occhi del mondo. Però tutto questo a un certo punto stanca, non aiuta più. E quindi essere riconosciuti solo per questo è un dispiacere. Sono venuti tanti ragazzi a trovarci qua, e – racconta Davide Cerullo - mi dispiace quando mi dicono che un gruppo non è arrivato perché non sapeva se fare le vaccinazioni per venire a Scampia, un altro non è arrivato perché doveva fare l’assicurazione sulla vita. Quando ho chiesto a 60 ragazzi delle scuole superiori di Bergamo perché avevano scelto Scampia, uno di loro mi ha detto che era il luogo migliore per imparare cos’è l’illegalità”. Dei singolari tour turistici li descrive anche Rosario Caldore: “Arrivano con i pulmini e fanno foto dietro ai vetri oscurati. Come se qui ci fossero delle bestie, come se facessimo paura”. Per la gente onesta di Scampia queste sono ferite, che sperano di rimarginare con la distruzione delle vele, da tempo ormai invivibili.

Lo spaccio a Scampia

A Scampia l’attività di spaccio non è più fiorente come un tempo. Fino a qualche anno fa all’esterno delle vele si formavano lunghe file di tossicodipendenti. Oggi se ne vedono pochi a gironzolare tra i palazzoni dai colori ormai sbiaditi del lotto M. E se la loro affluenza può rappresentare una misura di quello che è lo stato di salute attuale dell’attività di smercio di stupefacenti, si può dire che nelle vele di Scampia lo spaccio si è molto ridimensionato. Si è spostato e distribuito nelle zone vicine del quartiere e dell’hinterland di Napoli. Ci sono dei luoghi in provincia di Napoli dove, attualmente, l’organizzazione della vendita al dettaglio delle dosi eguaglia quella che si vedeva nelle piazze di Scampia negli anni in cui con la droga si facevano affari d’oro. Il parco Verde di Caivano e il rione 219 di Brusciano, per esempio, a confronto sono dei fortini, resi impraticabili e di difficile accesso dai ‘soldati’ delle piazze di spaccio. Tra le vele, quindi, sembra superata l’era a cui si ispira Gomorra, quella in cui intorno alla droga si era creata una economia fondata sull’illegalità che faceva la fortuna di tutti, a partire dalla casalinga, fino al negoziante. I pusher ci sono, ma non lavorano come in passato. Non si vedono, ma si fanno sentire. Basta rivolgere la parola a qualcuno per far scattare l’allarme e far partire messaggi che sanno di intimidazione. Il lancio di oggetti dai piani alti ha ammutolito due persone a cui ci eravamo avvicinati. Hanno smesso solo quando ci siamo allontanati. “Noi non neghiamo il passato, ma adesso siamo molto più avanti rispetto a quello che fa vedere Gomorra”, afferma Rosario del Comitato Vele.

Le vele contro Gomorra

Il quartiere è risentito per il racconto che la serie televisiva fa del quartiere, e per gli effetti mediatici che ne sono seguiti. Da qualche giorno sulle vele e sulle pareti della vicina torre si leggono scritte come “No a Gomorra”, “Non siamo Gomorra”, “Scampia mica è una puttana. Fra’, non te la do”. Messaggi apparsi in concomitanza con l’avvio della nuova stagione e che sono stati scritti persino sui rifiuti abbandonati lungo i viali che attraversano le vele. “No a Gomorra” campeggia ovunque. Qui si sentono vittime di quella che definiscono una strumentalizzazione mediatica che li ha infamati, che ha devastato ulteriormente una dignità già fatta a pezzi dall’assenza di diritti, dalla povertà, dalla camorra, che ha sfruttato la miseria per creare quel sistema che ha solo arricchito le casse dei clan. I vertici della malavita organizzata si ingrassavano e le vele continuavano ad essere risucchiate dal degrado.

Il degrado che ha reso le vele delle carcasse

Acqua che gocciola dappertutto, l’umidità che penetra nelle ossa, la muffa copre ovunque le pareti, i cortili dove si aprono i box sono un contenitore di rifiuti. E non è difficile trovare in giro dell’amianto danneggiato, nocivo per la salute. “Ben venga l’abbattimento di questi mostri di cemento. Nella vela fa freddo d’inverno e caldo d’estate. Sono casermoni che non erano adatti per viverci. Invece, abbiamo respirato amianto in questi posti, e c’è ancora”, è il pensiero di Rosario Caldore e della maggioranza. Rispetto alla questione ambientale, perplessità sull’abbattimento manifesta Fabio Cito, fotografo e operatore della cooperativa Casarcobaleno che a Scampia organizza attività per il recupero dei ragazzi a rischio. “Con l’abbattimento delle vele negli anni passati sono state messe nell’aria polveri di amianto. Attualmente dicono che verranno abbattute diversamente. Spero che l’amministrazione farà quello che dice. Per me l’azione migliore che si poteva fare era quella di recuperarle e trasformarle in un simbolo positivo, realizzando un progetto un po’ più ampio”. Le vele, però, sono ridotte a carcasse piene di insidie, difficili da recuperare. Nonostante le condizioni in cui versano, per famiglie senza un tetto rappresentano comunque, ancora, una soluzione alla loro emergenza abitativa.

Si tratta di persone, che - usando un’espressione pronunciata dalla signora Antonietta - “nun tenen ne’ cielo ‘a vede’, ne’ terra a cammenà” (non hanno né cielo da vedere, né terra su cui camminare, ndr) - e sono probabilmente le uniche che non vorrebbero l’abbattimento dei quei palazzi triangolari. Le vele saranno invece rase al suolo e, in attesa, si vive di progetti e speranze, ma anche con un interrogativo: “Ma tu pensi che veramente saranno abbattute?”.

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