L'assedio alle acciaierie Azovstal a Mariupol si è trasformato nell'emblema della guerra sbagliata di Vladimir Putin. Ieri lo Zar ha subito un'altra sconfitta: la tanto pubblicizzata parata del 9 maggio per la vittoria contro il nazismo sulle macerie di una città trasformata in un inferno, con tanto di sfilata di prigionieri ucraini, è stata annullata, visto che quell'ultimo caposaldo non è stato ancora conquistato. Ma per essere più chiari, questa battaglia gli strateghi del Cremlino l'hanno già persa in ogni caso sul piano mediatico. Se la resistenza di quei «1500» (nell'iconografia epica il numero diventa il soggetto collettivo di chi compie l'impresa, come i «300» delle Termopili ) durerà ad oltranza, l'esercito russo, con tanto di ceceni al seguito, incasserà un altro smacco. Se, invece, alla fine si assisterà ad un massacro o quel gruppo di combattenti dopo mesi e mesi cederà, Putin avrà perso ugualmente perché questa battaglia, sulla carta senza speranza, si trasformerà in un elemento identitario per la nazione ucraina. Più o meno come Fort Alamo lo fu per gli Stati Uniti.
Zelensky, che forse non sarà un gran politico ma sicuramente è un mago nella comunicazione, lo ha capito da un pezzo e già più di un mese fa ha conferito al capo del battaglione Azov, Denis Prokopenko, la più alta onorificenza del Paese: «Eroe dell'Ucraina». Quasi che fosse, appunto, un novello Davy Crockett che dopo la morte fu insignito dell'«Official State Hero Of Texas». E da allora il presidente ucraino, secondo copione, lancia appelli ai difensori di Azovstal spronandoli a resistere. Si può scommettere (già girano voci in proposito) che in capo ad un anno la battaglia delle acciaierie di Azovstal diventerà il soggetto di un colossal ad Hollywood. La vicenda sembra fatta apposta per colpire l'immaginario degli americani e per diventare un efficace strumento di propaganda.
Resta da capire perché Putin si sia ficcato in una situazione senza sbocco. Dal punto di vista mediatico si ritrova stretto in un cunicolo come i difensori di Azovstal. La ragione è semplice e in fondo spiega molti dei paradossi, degli errori, delle contraddizioni dello Zar e della sua guerra sbagliata: al Cremlino ragionano come 40 anni fa. Né più, né meno. Tutto si gioca sui rapporti di forza. Nell'era della comunicazione che diventa sempre più sofisticata, il momento clou della strategia mediatica globale del Cremlino sarà lunedì prossimo, nel «giorno della vittoria» contro il nazismo, quando sulla Piazza Rossa sfileranno carri armati e missili e nei cieli voleranno i bombardieri supersonici. Più o meno la replica dei filmati che riprendevano mezzo secolo fa nello stesso anniversario, magari pure in bianco e nero, la nomenklatura sovietica. La verità è che la Russia non è cambiata. Si è trasformato il regime. Ha assunto un altro volto. Null'altro. Basta pensare all'intervista del ministro degli Esteri Lavrov a Rete4.
In un mondo profondamente cambiato dal Web e da uno sviluppo tecnologico irresistibile, la Russia è rimasta, per buona parte, quella di quaranta anni fa. Per cui ha una sola possibilità per vincere: costringere il mondo a riportare indietro le lancette della Storia.
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