Il gruppo «giovane», rivelazione della scena indipendente del 2012, ha un cantante vecchio. Ma non è questo l'unico aspetto singolare dei ManzOni, che con Cucina Povera, uscito per un'etichetta grintosa a partire dal nome: Garrincha dischi, hanno collezionato recensioni ottime e raccolto entusiasmi live. Le stranezze dei ManzOni cominciano con l'organico: quattro chitarre con ampio uso di looper per stratificare i suoni, e con ognuno dei musicisti che si alterna alla batteria. Un suono a metà tra post rock alla Mogwai e cantautorato alla Piero Ciampi. Anche il nome è un crocevia di parecchi riferimenti. ManzOni come Don Lisander naturalmente, e poi come il liceo classico milanese, come Incrocio manzoni, vino bianco del trevigiano, e infine come l'artista delle uova sode e della merda d'artista. Ma con la «o» maiuscola, a significare lo stupore del frontman Luigi Tenca di fronte alle opere di Piero.
Ed è proprio la figura di Tenca che spicca dal vivo. Un 59 enne secco, zazzeruto e occhialuto che racconta storie autobiografiche, tra nostalgia, spleen territoriale, risentimento indignado rigorosamente senza rima. Mentre i suoi colleghi, trentenni o giù di lì (Fiorenzo Fuolega, Carlo Trevisan, Emilio Veronese, Ummer Freguia), trafficano con corde, pedalini, pelli e bacchette. Un gruppo compatto nella provenienza geografica. Tutti veneti di Chioggia, fanno tutti lavori più o meno normali, coltivano interessi letterari comuni: dall'Ungaretti de Il mio Carso al Rigoni Stern di Un anno sull'altipiano. Il titolo del disco proviene da una delle passioni di Tenca, la cucina. Lettore di libri e riviste specializzate, dopo un periodo di interesse per la nouvelle cousine sfociato in un rigetto fatale, Tenca ha ripiegato sulle polpette della madre 87 enne, sulle sarde in saor, sui risi e bisi. Cucina povera, appunto. Anche se la ricetta per far suonare quattro chitarre post rock e una voce cantautorale in maniera unitaria è meno immediata del previsto, e ha richiesto un gran lavoro in sala prove. In alcuni brani spuntano influenze alla Beach Boys (I vecchi), il finale di In Toscana ha un dichiarato accento Hey Jude. A sentire una per una le tracce del disco viene da pensare che quella territoriale è una strada ancora praticabile per il rock italiano.
E che le influenze «manzoniane», se ci sono, non sono certo quelle della merda in scatoletta, se mai la ricerca di una tonalità «grezza» e materica degli Achromes, su cui far scorrere atmosfere ambigue di chitarra e un cantato-parlato che può ricordare il Giovanni Lindo Ferretti più prosastico.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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