Paternollo, un milanese a Milano

Lo chef di Pellico 3, all’interno del Park Hyatt, è un raro caso di “enfant du pays” impegnato in una cucina fine dining nel capoluogo meneghino. Ex ingegnere, la sua filosofia privilegia la stagionalità, la misura, l’eleganza, come evidenzia la Foglia di shiso in tempura, il Tortello di ricotta di pecora e ‘nduja e il doppio servizio dell’agnello

Paternollo, un milanese a Milano
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Pellico 3, un nome che prende il nome dall’indirizzo. Via Silvio Pellico numero 3, a cinquanta passi malcontati da uno degli ingressi della Galleria Vittorio Emanuele, dove si trova il Park Hyatt, uno degli alberghi più affascinanti del centro di Milano. Una scelta, quella di dare al ristorante il nome dell’indirizzo, un po’ da ingegnere. E toh, qui lo chef è proprio un ingegnere, Guido Paternollo, che anni fa fu fulminato sulla via dei fornelli e dopo un periodo di transizione lasciò la professione per indossare la giacca bianca. L’incubo di ogni madre italiana, colei che cresce i figli dicendo loro: “Diventa ingegnere, così troverai lavoro subito”. Certo no: “Diventa chef!”.

Paternollo – raro caso di milanese alla guida di un ristorante fine dining milanese - sta facendosi strada nella scena gastronomica milanese grazie anche al magistero di Yannick Alléno ed Enrico Bartolini. Il suo approccio è umile, misurato. Non vuole mai fare il fenomeno, è un maratoneta, passo sicuro, lascia scappare gli scattisti sapendo che prima o dopo li riacchiapperà tutti. Non ha avuto ancora i riconoscimenti che merita – tra essi la stella Michelin – e lui dice di non perderci il sonno, ma lo dico io per lui: se la meriterebbe. In ogni caso anche se non dovesse accadere quest’anno, non importa. C’è sempre l’anno dopo. E poi il ristorante è spesso pieno, la clientela non manca, un po’ costituita dai “foodies” milanesi che hanno inserito l’indirizzo nel proprio personale gastronavigatore, un po’ per i tanti ospiti stranieri (dell’albergo ma anche no) che qui provano una piacevole cucina milanese e italiana raffinata ed elegante, indubbiamente tecnica ma che vede la semplicità come risultato di un lavorio nascosto di studio e applicazione. “Metto al massimo un piatto in ogni sezione del menu un po’ più complicato”, mi dice.

Ho cenato al Pellico 3 qualche sera fa e si è trattato di un’esperienza davvero soddisfacente. Ho iniziato con una serie di snack: Frolla di mais, con caprino, gel di scalogno, barbabietola affumicata e caviale; Sandwich al nero di seppia con granchio e lime; Tartelletta di grano saraceno con caponata di melanzane, pecorino, pepe e mentuccia. Poi, dopo il servizio del pane (pagnotta integrale ai cinque cereali in abbinamento a olio extra vergine d’oliva gardesano, un golosissimo pane sfogliato al burro e grissini tirati a mano), il primo colpo di fulmine: una Foglia di shiso in tempura con crème fraiche, maionese al levistico e caviale formalmente perfetta.

Poi è partito il percorso vero e proprio: prima tappa un’Insalata di stagione di verdure cotte e crude che crea un gioco di consistenze, con alcuni condimenti (miele di castagno, emulsione al prezzemolo e pesto di rucola) e una Quinoa soffiata a dare una nota croccante. Quindi il piatto forse più ispido della serata: delle Sardine marinate con cuori di pomodoro anch’essi marinati con la soia (datterino giallo, zebrino e camone), cimette di rucola selvatica, olio di ventricina e dei cappelletti di pasta all’uovo con all’interno sardine affumicate. Per palati allenati. Poi un piatto simbolo dello chef, stavolta rassicurante: un Tortello ripieno di ricotta di pecora e ‘nduja con salsa barbecue ed estrazione al melograno. E ancora un altro piatto grandioso, uno Spaghetto cotto in acqua di pomodorino verde (a cui si deve la componente acida) con emulsione di vongola, calamaretti spillo spadellati, vongole e pomodori confit.

È il momento dei secondi. Il protagonista qui è l’Agnello, che viene proposto in due servizi: una sella arrosto con cipolla di Cévennes cotta nel latte, peperonata e patate aromatizzate alla paprika, poi jus di agnello con animella e fegato, tutto tagliato con olive taggiasche; e uno scottadito con bangetto rosso rivisitato con capperi, acciughe, peperoni e salsa di pomodoro secco. Tutto nitido ed elegante. Infine i dessert: prima delle Ciliegie fermentate e non con basilico rosso poi una Tarte fine alla fragola con sfoglia, frangipane alle mandorle, marmellata di fragole e fragoline e un gelato al fior di latte di capra con fragoline di bosco.

La carta dei vini è notevole, molto ricca, adeguata alla location, un elegante salotto cittadino luminoso e accogliente progettato dall’architetto Flaviano Capriotti usando la palette cromatica che varia dal giallo al marrone

al verde e che richiama ingredienti della cucina tipica dello chef. Il servizio, affidata alla maître de restaurant Giusy Chebeir (io sono stato seguito benissimo dal giovane Fabrizio) fila che è un piacere. Uno dei tanti.

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