Come abbattere via Twitter i luoghi comuni culturali

Lo scrittore Teju Cole fa a pezzi in 140 caratteri cliché, tic e idee "corrette". E il New Yorker lo incorona

Come abbattere via Twitter i luoghi comuni culturali

Se usate la parola «crisi», ricordate l'aneddoto che in cinese lo stesso termine significa anche «opportunità». Se parlate di Salman Rushdie dovete avere un'opinione forte su I versi satanici, «ma non c'è alcuna ragione al mondo per leggerli». Se decidete di utilizzare la parola «fascismo, fatela sempre precedere dall'aggettivo «strisciante». E a proposito di televisione, sostenete che «è molto migliorata, meglio dei romanzi», e «se qualcuno cita The Wire, voi ribattete con I Soprano, e viceversa».

Che noia essere tutti d'accordo, avere le stesse identiche idee, ragionare con pensieri automatici, parlare per frasi fatte. Non c'è nulla di peggio dei luoghi comuni.

Lo disse e lo scrisse, prima e meglio di tutti, Gustave Flaubert nel suo Dictionnaire des idées reçues, pubblicato postumo nel 1913, in cui satireggiava sulle opinioni chic, i chiché culturali, i conformismi intellettuali, le formule standard, insomma le idee «giuste», anche se tragicamente errare, che ripetiamo, ogni volta - come se fossero una nuova intuizione - per pigrizia, per pregiudizio, per ipocrisia. Per fortuna, ogni tanto c'è qualche spirito magno che ha il coraggio di rinfacciandoci con ironia la nostra stupidità e i nostri conformismi.

Accanto a Flaubert, al Dizionario del diavolo del cinico Ambrose Bierce (1842-1914) e alla ormai dimenticata parodia dei luoghi comuni Are You a Bromide? (1906) del maestro del non sense Frank Gelett Burgess - uno che disse che «Per apprezzare il non senso si richiede un serio interesse per la vita» -, nello scaffale delle operette che rimettono le idee a posto da oggi consigliamo di conservare anche l'irresistibile dizionarietto dello scrittore Teju Cole: una settantina di voci in tutto pubblicate prima via twitter e poi raccolte pochi giorni fa sotto il titolo In Place of Thought nella sezione «Page-turner» del New Yorker.

Narratore, fotografo, storico dell'arte, autore del romanzo Città aperta, un vero caso letterario negli Stati Uniti - per stare ai luoghi comuni - e da pochi mesi tradotto da Einaudi, in qualità di «giovane promessa» Teju Cole, nigeriano-newyorkese di 38 anni, è già stato accostato a «venerati maestri» del calibro di Sebald e Coetzee. Intanto, se con il suo libro ha dimostrato di amare la narrativa «atipica», con il suo personalissimo dizionario flaubertiano ai tempi di Twitter, ha fatto capire che odia la stupidità, una cosa che ci perseguita ovunque. Dall'Africa («Un Paese. Povero ma felice.

In crescita») a Parigi (in questo caso l'aggettivo giusto è «romantica», «nonostante i camerieri scortesi e turisti giapponesi», e comunque non si deve dire semplicemente «mi piace», ma «l'adoro») fino all'India («Una terra di contraddizioni») fino. Perché i luoghi comuni, la cosa più facile in assoluto da esportare, non conoscono frontiere.

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