Amianto, conversazione con Alberto Prunetti

Abbiamo incontrato virtualmente l’autore grossetano Alberto Prunetti per parlare, sempre telematicamente, del suo romanzo Amianto. Una Storia Operaia (Edizioni Alegre, 2014) per poi allargarci a considerazioni sul panorama letterario ed editoriale italiano. Ecco cosa ne è venuto fuori.

Partiamo dalla fine per raccontare l’inizio. L’anno scorso è uscita la seconda edizione di Amianto ampliata da un capitolo aggiuntivo e dall’ “appendice giapster” de “Il Triello”, tua conversazione telematica con Girolamo De Michele e Wu Ming 1. Raccontandoci la tua esperienza e le tue considerazioni sul sistema editoriale italiano, ritieni che la grande distribuzione ignori il potenziale di “ibridi narrativi” come Amianto per una scelta politica o semplicemente economico- commerciale? E, invece, quali sono i motivi che hanno spinto te e la casa editrice Alegre ad ampliare il romanzo con questa appendice? Deve essere intesa come una vera e propria protesi narrativa delle vicende raccontate nel libro oppure essa va considerata come una nota critica al romanzo stesso?


L’ibrido narrativo è un classico mal riconosciuto del sistema editoriale italiano. Prendiamo Se questo è un uomo di Levi, che è un esempio di un testo ibrido: un po’ memoriale, un po’ romanzo, un po’ inchiesta per immersione. Nel libro di Levi il piano espositivo si alterna e si sovrappone: c’è l’esposizione argomentativa, quella fàtica, quella emotiva, che si incastrano e si giustappongono. Questo per dire che in Italia certi ibridi si son sempre scritti ma oggi il fatto che siano classici nasconde agli occhi dei contemporanei le difficoltà della loro storia editoriale (Cesare Pavese notoriamente rifiutò il manoscritto di Levi). La situazione poi è complessa per gli ibridi prodotti ai nostri giorni: certo, c’è stato il successo del libro di Saviano, che era appunto un’inchiesta narrativa tessuta coi codici della finzione (o meglio: un romanzo che calcava gli stilemi dell’inchiesta). Ma Gomorra è rimasto confinato al piano dell’eccezionalità e non ha potuto scardinare la forma rigida delle collane editoriali e di conseguenza degli scaffali librari. Per quanto riguarda le difficoltà nell’accoglimento editoriale della mia scrittura, credo che questa patisca tre elementi, che io chiamo, facendo il verso a Dick, le tre stigmate di Alberto Prunetti. Amianto parlava di operai; parlava di una malattia terminale; era scritto in forma ibrida. Tre cose che bastavano ad ammazzarlo in fase di cernita editoriale. Mettiti nei panni di un redattore che riceve un manoscritto con la storia di un operaio morto ammazzato da un tumore professionale, scritto dal figlio che impasta ricordi e maledizioni, risate, improperi e considerazioni sul capitalismo allo stadio terminale. O è un minestrone pesante o un’opera importante. Non è passata la seconda ipotesi e il manoscritto di Amianto è stato rifiutato un paio di volte. Solo due piccole editrici hanno a turno accettato di pubblicarlo, ottenendo poi buoni riscontri per critica, vendite e immagine. Con Agenzia x il libro ha avuto decine e decine di segnalazioni e recensioni. Con Alegre quasi nessuno l’ha recensito perché era una riedizione e i giornali non recensiscono le riedizioni. Eppure il tam tam ha fatto bruciare in meno di un anno la prima tiratura della riedizione di Alegre ed è appena uscita la ristampa dalla tipografia (pensa che una buona casa editrice aveva rifiutato di ristamparlo perché – mi hanno detto – di questi tempi le riedizioni non funzionano). Detto questo, sul numero in corso de L’Indice dei libri, una delle pubblicazioni editoriali più importanti che abbiamo in Italia, scrivono che Amianto è “per importanza civile, qualità e onestà di narrazione (…) uno dei grandi libri italiani degli ultimianni” (a p. 14 del numero 4, di aprile 2015). Considerazioni di questo tipo ne ho ricevute e fanno piacere, ma espongono e mettono a nudo anche le difficoltà nei riflessi dell’industria culturale. Non credo che il problema sia di tipo politico. E’ una lentezza di riflessi, tutto qui. Dove si pongono i grandi editori rispetto a questi libri mal catalogabili? Per come la vedo io, rimangono arroccati dietro alle collane, a rimbalzare tra fiction e non fiction, quando sarebbe il caso di buttare giù le frontiere tra le collane. Di buttare all’aria la scacchiera, come fa il gatto sulla chiatta de L’Atalante. Ricordate il film di Jean Vigo? Per ora però la prima mossa l’ha fatta proprio la Alegre edizioni, che ha giocato d’anticipo sugli altri editori realizzando una collana specifica, ibrida, per questi oggetti narrativi non identificati, intitolata appunto Quinto tipo, che ha lanciato il libro di Luigi Chiarella, Diario di zona, che è un’opera molto interessante. Si tratta di una collana per libri fuori collana. Il fatto che Quinto tipo, diretta da Wu Ming 1, sia stata partorita da una piccola editrice come Alegre, (e Amianto è una sorta di fuori collana di Quinto tipo, un fuori collana al secondo esponente) è un sintomo del fatto che la grande editoria italiana reagisce con lentezza mastodontica a certe trasformazioni. Si punta ancora o sul libro commerciale, in cui l’autore è un testimonial spettacolare, una vedette del testo che firma, o su opere che cadono a pesce lesso dentro a una cornice di generi che sta ormai diventando stretta e logora. La letteratura latinoamericana in questo senso è molto più avanti. Non mi riferisco a quella del boom degli anni Sessanta, ma al giornalismo narrativo che oggi dall’Argentina è arrivato in Messico e sta producendo opere potenti, ibridi tra il piano espositivo giornalistico, l’inchiesta e la fiction che lasciano senza fiato. Sembra che da noi si accettino questi ibridi solo dopo che hanno dimostrato di poter vendere all’estero. Mi viene da dire che quello che succede nell’editoria è molto simile a quello che avviene nel calcio. Invece di lavorare sui vivai, aspettiamo di comprare i campioni che crescono in Africa o in America Latina. Si pratica una sorta di delocalizzazione della formazione. Ben vengano quindi Carrère o Yuri Herrera o Osorno o Bolaño (in quale collana mettereste 2066 o La letteratura nazista in America? Probabilmente in Italia il manoscritto inedito di queste due opere, se l’autore fosse stato un esordiente, sarebbe finito in un cestino). Ma solo perché sono nomi sicuri su cui si può puntare, omettendo di formare una generazione di calciatori o di scrittori che potrebbero essere degli ottimi comprimari. In questo senso calcio e editoria sono sistemi ad alta concentrazione di capitale. Ed entrambi sono in crisi. Per tornare all’editoria, bisogna capire che se non si creano delle corsie preferenziali per gli “UNO“, come li chiamano i Wu Ming, o per gli ibridi narrativi, come li definisco io, queste opere tarderanno a essere generate. E si continuerà a dover leggere opere nate stanche, scritte da uomini di penna imbolsiti, pubblicate in collane logore, che poi si scopre che vendono niente. E a lamentarsi che calano i lettori. Quando passa un treno in corsa, non lo riconoscono e dicono “è un ufo, non sappiamo cosa farcene”. “E’ un treno troppo rapido, non riusciamo a salirci sopra”. E’ un peccato per il sistema editoriale, per i lettori e per gli scrittori, che spesso accettano di dover piegare la propria opera alla forma canonica della collana editoriale, quando hanno tra le mani testi che spingono oltre la cornice. E’ una questione di riflessi, lo ripeto. Ogni tanto bisogna guardarsi anche un po’ di pugilato, per capire come e cosa schivare, quando incassare, e quando è il momento di partire all’attacco. Detto questo, io ho ristampato il libro con Alegre perché avevo bisogno di una distribuzione più ampia e in secondo luogo perché la vicenda mi tracimava tra le mani e dovevo inserire nel libro la storia di Steve McQueen. Dovevo risemantizzare Steve McQueen per farne un’icona della lotta contro l’amianto (non è stata dura, visto che negli USA l’attore americano, con la fondazione della sua vedova, è già un testimonial contro l’industria dell’asbesto). Quanto al triello, che non è né appendice né capitolo, abbiamo fatto una cosa simile a quello che i Wu Ming hanno fatto con il loro capitolo bibliografico alla fine de L’Armata dei sonnambuli. E’ un po’ testo e un po’ paratesto, sta sulla soglia dell’opera. E’ una nota critica che è anche una protesi narrativa. E’ anche il frutto di una nuova ibridazione rispetto alla prima edizione del testo.

Di più: mentre il triello chiude alla maniera di un western spaghetti il mio libro, in realtà apre il mio nuovo manoscritto a cui continuo a lavorare in questi giorni. Nel triello c’è in nuce una parte del plot del mio nuovo lavoro, ovvero il secondo volume della trilogia working class, o trilogia dell’amianto, che è cominciata con Amianto. Una Storia Operaia.

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