I veri liberali in Italia saranno anche quattro gatti, come qualcuno ama dire, ma come tutti i gatti pronti a tirar fuori le unghie appena qualcuno minaccia il loro territorio. Apparentemente placidi, in realtà ferocemente aggressivi. Tolleranti e aperti al dialogo per predisposizione morale, eccitabili e polemici per dovere intellettuale. Ma chi sono - ecco il punto della questione - i veri liberali?
Nelle ultime settimane, per rispondere alla domanda, nel piccolo cortile della stampa italiana si sono azzuffate due colonie di intellettuali litigiosissime, divise su tutto, tranne su un punto: entrambe sono ugualmente convinte di essere dalla parte della ragione, e di essere autenticamente liberali e democratiche. Un duello all’ultimo principio filosofico, in punta di penna e, come esigono le contese culturali, violentissimo. Non senza colpi bassi.
È vero, da noi la dotta disputa sull’essenza del «liberalismo» (e del «liberismo») dura da quasi un secolo, quando i protagonisti erano Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Si è trascinata tra alti e bassi dopo l’89, quando sembrò scoccata l’ora di essere tutti liberali, e continua anche oggi quando a conti fatti - al netto dei proclami - i liberali «convinti» sono tornati un’élite. Nel senso di un club numericamente ristretto.
Recentemente a graffiarsi sulle pagine del Corriere della sera sono stati due illustrissimi (ex) amici, l’ex direttore del giornale di via Solferino Piero Ostellino (più moderato, scettico sul fatto che il liberalismo possa pretendere di sapere dove va Storia, e che esclude una «interpretazione autenticamente liberale del liberalismo») e il politologo «di sinistra» Gianfranco Pasquino (più dogmatico, meno accondiscendente sulle possibili sfumature del liberalismo, e che rivendica la sua posizione liberalsocialista, alla Norberto Bobbio). Due intellettuali «diversamente» liberali che, curiosamente, una volta dismesso l’armamentario politico-filosofico a sostegno ognuno della propria tesi, tirano fuori, come ultima arma letale, la peggiore, e più scontata, delle accuse: quella di (anti)berlusconismo. Per Pasquino è impossibile cercare di coniugare l’idea liberale con la figura e la politica del Cavaliere («Del tutto sbagliata è la tiritera sul governo Berlusconi eletto dal popolo, il quale, al massimo, aveva messo una crocetta sul simbolo di un partito. Un po’ poco per esprimere la sovranità popolare»); per Ostellino è vergognoso che in una discussione di principio ci si rifugi nei luoghi comuni della propaganda politica accusando l’interlocutore di essere berlusconiano (e sottolinea «l’anomalia di un governo, quella di centrodestra, che si dimette avendo la maggioranza in Parlamento, per far posto a uno nominato dal presidente della Repubblica»).
E Silvio Berlusconi, del resto, è da sempre, che piaccia o no, il convitato di pietra della polemica su democrazia e liberalismo. Un esempio eclatante lo offre la rivista Paradoxa, trimestrale della Fondazione «Nova Spes», che lo scorso anno pubblicò un numero monografico, curato da Dino Cofrancesco, su «Quelli che... la democrazia», ossia quel gruppo di intellettuali, potentissimi opinion maker, per i quali la democrazia è «cosa loro», campioni di un pensiero unico illiberale secondo il quale con Berlusconi non può esserci democrazia, la libertà degli elettori è una libertà dei servi e il Paese è (era) sotto il tallone di un pericoloso imbonitore... Gli unici a sapre qual è il vero bene per il popolo. Sono, con tutti i distinguo del caso, i Paul Ginsborg, i Massimo L. Salvadori, i Maurizio Viroli, i Zagrebelsky, i Luciano Canfora.
Ora, a qualche mese di distanza, è giunta la risposta: il nuovo numero di Paradoxa, dal titolo «Liberali, davvero!», a cura di Gianfranco Pasquino, vuole essere la replica, da sinistra, agli interventi di «Quelli che... la democrazia», come Cofrancesco e soci, ma soprattutto ai loro (del tutto presunti) «ispiratori»: i Piero Ostellino, gli Angelo Panebianco, i Giuliano Ferrara, tutti arruolati, naturalmente, nelle file del berlusconismo.
E così, anche la colonia dei «quattro gatti» liberali, finisce per dividersi in due: da una parte gli «austriaci», i «liberali-liberisti», alieni fino dove è possibile da una militanza etico-politica, ma che se necessario possono scendere a «compromessi» con (alcuni) valori del centrodestra (appunto i Cofrancesco, i Panebianco, gli Ostellino, forse i Sergio Romano); e dall’altra parte i «liberalsocialisti», discepoli della scuola di pensiero post-azionista, oppositori a prescindere di qualsiasi idea, liberale o no, sia intinta in qualche salsa berlusconiana, quelli che, come Francesca Rigotti su Paradoxa, arrivano a vestire Immanuel Kant dei panni di uno scatenato antiberlusconiano teologico (appunto i Pasquino, i Zagrebelsky, le Urbinati, i Rodotà...).
E la triste impressione è che - come accade anche tra i rivoluzionari - per quanto ti professi liberale, alla fine c’è sempre qualcuno che ti dimostra di essere più liberale di te. Non sulla base di questioni di metodo, ma di purezza ideologica.
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