William Dalrymple è nel giardino di casa sua, una fattoria nei pressi di Delhi, tra le frasche, le sdraio e la cagnolina che gli salta in braccio ogni tanto. Da anni vive in India, il Paese che studia dai tempi di Cambridge e che, da storico, ha raccontato in un «quartetto» a cui ha iniziato a lavorare nel 1999 e che ha terminato in vent'anni: dopo Nella terra dei Moghul bianchi (Rizzoli, 2002), L'assedio di Delhi (Rizzoli, 2007) e Il ritorno di un re (Adelphi, 2015), ora arriva in italiano Anarchia (Adelphi, pagg. 634, euro 34, traduzione di Svevo D'Onofrio). In realtà, come spiega, si tratta «del primo libro da leggere», dal punto di vista cronologico: in esso, infatti, Dalrymple tratteggia, anche con fonti inedite (cronache Moghul e scritti persiani tradotti per la prima volta da Bruce Wannell, «morto di cancro alla fine del libro») «L'inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali», ovvero di una delle prime Società per azioni della storia che, dal 1599 (anno della fondazione, con successiva «patente regia» di Elisabetta I di muovere guerra...) cresce fino a diventare «una potente multinazionale» alla quale, nella seconda metà del Settecento, riesce «un colpo di Stato aziendale senza precedenti: la conquista militare, l'assoggettamento e il saccheggio di vaste aree dell'Asia meridionale». In cinquant'anni.
William Dalrymple, come è nato il suo amore per l'India?
«Sono venuto qui per la prima volta a 19 anni e poi mi sono trasferito. Ormai vivo qui, è meraviglioso, anche se non ho mai tagliato i ponti del tutto con Londra e la Scozia: torno sempre in estate, quando ci sono i monsoni».
I Dalrymple citati in varie parti del libro sono suoi antenati?
«Sì, tutti. La mia famiglia apparteneva all'aristocrazia non di alto rango: aveva aspirazioni sociali molto superiori al proprio budget... Così i figli venivano spediti in India, generazione dopo generazione, a cercare fortuna. E poi, grazie allo sfruttamento avvenuto in India, con quelle ricchezze i miei antenati si sono trasferiti in Scozia. Anche Calasso amava molto l'India: mi manca, questo è il mio primo libro pubblicato da Adelphi senza di lui».
È dall'India che proviene anche una sua antenata, che la imparenta alla lontana a Virginia Woolf?
«Una mia bis-bis-bisnonna e la sua erano sorelle, indiane entrambe. Molti impiegati della Compagnia sposavano donne indiane».
Una delle parole chiave del libro l'ha citata poco fa: «sfruttamento». Però questa è una storia particolare di sfruttamento...
«È una storia molto bizzarra, perché lo sfruttamento non è stato portato avanti da uno Stato nazionale: la colonizzazione non è avvenuta tramite il governo, l'esercito o la marina, bensì è partita da un piccolo ufficio di broker di Londra».
Piccolo quanto?
«La Compagnia delle Indie Orientali era una società con 35 dipendenti, con sede in un edificio modesto di Londra. Nel Seicento la Gran Bretagna non era una potenza economica. Ma, attraverso l'avidità e la crudeltà, e una strategia militare efficace, in cinquant'anni, dal 1756 al 1803, quella società conquista uno stato indiano dopo l'altro e, infine, tutto l'Impero Moghul. Che all'epoca era il più ricco del mondo».
In cifre?
«Il 40 per cento del Pil mondiale proveniva dall'India e, in particolare, dal Bengala, che aveva un'industria specializzata e di altissima qualità».
La Compagnia che cosa faceva?
«Gli inglesi erano i marinai dei Moghul: trasportavano il cotone, la seta, i broccati, le spezie, la polvere da sparo... E poi l'oppio in Cina, e il tè a Boston. Ed è così che, da piccolo giro d'affari, la Compagnia divenne una gigantesca corporation globale».
Con potere militare.
«Erano così furbi che non conquistarono l'India con dei soldati inglesi, bensì con soldati locali, pagati coi soldi presi in prestito dai banchieri locali. Nel 1803, la Compagnia aveva un esercito di duecentomila uomini, il doppio di quello britannico. Una storia bizzarra, appunto».
Che legame c'era con la politica?
«Le relazioni con la politica c'erano ma, nelle sue conquiste, la Compagnia agiva da sola. Poi, nel 1770, ci fu una carestia in tutta l'India, con tre milioni di morti. A quel punto, la Compagnia iniziò ad andare male».
E che cosa accadde?
«Il governo inglese la salvò, con una operazione di bailout: come Lehman Brothers, era semplicemente too big to fail. E così, nel 1774, da privata la Compagnia diventò semi-pubblica. Fino ad allora era stata come Tesla, o Microsoft, dopo diventò al cinquanta per cento dello Stato, fino a che poi fu nazionalizzata».
Quanto è attuale questa storia?
«Molto. È interessante per noi, che siamo preoccupati dalle multinazionali e dal loro potere, perché è la storia di una società che ha più soldati di una nazione: immaginate che Musk abbia i missili, o Google i tank, o Microsoft i sottomarini... Ecco, la Compagnia era una corporation con le armi».
Era all'avanguardia anche nell'attività di lobbying.
«Nel 1693 dei membri furono scoperti a offrire soldi ai parlamentari, per corromperli; ci fu uno scandalo, e i vertici furono arrestati. Così diventarono più sottili nel fare lobby...».
Come?
«Chi tornava dall'India pieno di ricchezze si comprava un rotten burrough, uno dei borghi putridi, per essere eletto in Parlamento: così si formò una specie di partito, un po' come la lobby delle armi negli Stati Uniti oggi. Inoltre, metà dei parlamentari possedeva azioni della Compagnia, quindi essa era doppiamente protetta. Ha anticipato tutto ciò che più temiamo delle multinazionali».
Che altro?
«Nell'anno della carestia in India, mentre le persone morivano, anziché spedire cibo la Compagnia mandava soldati a raccogliere le tasse nei villaggi. E a Londra, all'assemblea annuale, i soci si aumentarono i dividendi. Ricorda qualcosa?».
Anarchia racconta questa storia come un dramma, con eroi e antieroi...
«Soprattutto con moltissimi villain...».
Robert Clive, l'uomo delle conquiste militari, è il peggiore?
«Clive è il più crudele, il più maligno e il più astuto di tutti. Vince ogni battaglia, terrorizza i nemici, è furbissimo. L'immagine che si contrappone alla sua è quella di Shah Alam, il principe Moghul, bello, affascinante, che scrive poesie in quattro lingue, ma perde ogni battaglia che combatte. Clive è ignorante, ma è uno stratega brillante. Shah Alam è il suo opposto: è l'unico eroe della vicenda, ma perde, e muore cieco. Una storia tragica».
L'India era ricchissima, ma gli inglesi vi entrarono per caso...
«Sì, perché gli olandesi avevano sconfitto gli inglesi ed erano arrivati per primi nelle isole delle spezie, in Indonesia. Così, nel 1640, come una start up la Compagnia cambiò commercio, e si rivolse ai tessuti in India, che si rivelarono poi una fonte di guadagno assai migliore, sebbene non per gli indiani».
L'anarchia del titolo ha fatto nascere anche un genere letterario, gli 'Ibrat Nama, che cita ampiamente nel libro. Di che si tratta?
«Sono i cosiddetti libri di ammonimento, nati dopo la caduta dell'Impero Moghul, che fu dovuta alle sue divisioni e alle guerre civili, e che fu vissuta dalla popolazione un po' come la fine dell'Impero Romano, un'era di anarchia appunto, di rovina, di battaglie. Tutti pensavano che il mondo fosse giunto alla fine e nacquero molti di questi libri apocalittici. Finora non erano mai stati utilizzati come fonte dagli studiosi; Bruce Wannell, un uomo dal talento straordinario, li ha tradotti per la prima volta dal persiano e ora possiamo leggerli anche noi».
Sono testi bellissimi.
«Sì. E, finalmente, la storia della colonizzazione britannica in India non viene raccontata solo da fonti britanniche, bensì dalla voce delle persone sfruttate e saccheggiate. Credo che i memoriali, le lettere e i resoconti di parte indiana siano uno dei contributi più importanti del libro».
Dice che loot, bottino, è una delle prime parole inglesi mutuate dall'hindi.
«Per dare l'idea del bottino: quando gli inglesi entrarono in India, essa rappresentava il 40 per cento del Pil mondiale, e la Gran Bretagna il 7; quando ne sono usciti, nel '47, i britannici controllavano circa il 40 per cento del commercio mondiale, e l'India una quota a una sola cifra... Questo è stato l'Impero britannico».
C'è stato solo del male?
«No. Sono state fondate città come Bombay, Madras e Calcutta; il Paese, da disunito e diviso in pezzi, ne è uscito riunito e modernizzato.
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