L'Eldorado di tutte le avventure, il crocevia delle spezie e dei tormenti, lo zenith e il nadir della natura e della cultura, i paesaggi primordiali, le nevi eterne, le carovane dei cammelli, le statue giganti, i monili perfetti, le cupole intarsiate. Foto di vecchi fieri e giovani insolenti, corse di cavalli, combattimenti di uccelli, fiorire di rose, solitudini di tende, convivialità di sale da tè, di narghilè, di pane semplice, di latte cagliato... L'Afghanistan come miraggio, l'Afghanistan come ricordo, l'Afghanistan come rimorso.
Vent'anni fa, una mostra del Musée Guimet di Parigi, Afghanistan. Une histoire millénaire, raccontava una successione straordinaria di forme d'arte per quello che fu l'Estremo Oriente dei tempi di Alessandro il Grande, la terra di confine per i pellegrini cinesi della dinastia Tang, la via (...)
(...) della Seta e il «regno dell'insolenza» dell'età di Tamerlano, il luogo strategico del «grande gioco» anglo-russo fra XVIII e XIX secolo. Nella copertina del catalogo faceva bella mostra di sé il Génie aux fleurs, la bellissima divinità dai tratti ellenici di Hadda, IV secolo. Hadda è a 12 chilometri da Jalalabad e provenivano da qui le circa 15mila statue in stucco e argilla conservate nei suoi siti buddisti: e mai nell'Asia centrale era dato ritrovare una tale maestria tecnica e una conoscenza così grande del mondo greco-romano. Monaci, soldati, demoni, volti di asceti, risultato di centri di civiltà ellenica nella regione più che della diaspora greco-bactriana dell'Hindokush a seguito dell'invasione dei nomadi dall'Asia centrale. Hindokush, secondo quanto racconta Ibn Battuta, il Marco Polo arabo, voleva dire «che uccide gli hindou» e per lui l'Afghanistan era quel blocco di montagne dove il Profeta si arrestò, al confine con l'India. Sui contrafforti dell'Himalaya, fra Afghanistan e Pakistan, c'era il Kafiristan, il Paese dei pagani non convertiti all'islam, grandi, biondi, bevitori di vino. Alla fine del XIX secolo diverrà il Nuristan, il Paese della luce, e sarà islamizzato: i templi distrutti, le statue in legno razziate. Nel suo L'uomo che volle farsi re, Kipling lo descrive come il luogo «dove le strade non sono più larghe del dorso di una mano» e dà ai kafiri un'origine greca.
Come per tutti gli inglesi, anche per Kipling quella per l'Afghanistan fu una fascinazione piena di sensi di colpa e soprassalti di simpatetico orgoglio. Nei coevi romanzi di Sherlock Holmes c'è sempre qualche reduce di quei conflitti, compreso il Dottor Watson che ne porta ancora sul corpo le cicatrici. In Kim, appunto di Kipling, l'Afghanistan è uno dei teatri del «Grande Gioco» dove gli inglesi sono chiamati a recitare una parte da protagonista. La posta in palio è sì politico-diplomatica, il controllo dell'Asia centrale, ma ciò che la contraddistingue e, due secoli dopo, la rende ancora affascinante, è l'incredibile qualità e quantità d'impegno, di coraggio, di spregiudicatezza, di costanza e di dolore da quei giocatori profusa. Chi ne ha dato la migliore rappresentazione è ancora un inglese, Peter Hopkirk, nel suo Il Grande Gioco (Adelphi). Data l'immensità dello scacchiere in cui si svolse, la definizione data da un ministro zarista dell'epoca di «un torneo di ombre», non suona stonata. Come ombre, infatti, gli uomini che vi presero parte, ufficiali, commercianti, esploratori, dilettanti di razza, semplici avventurieri, apparivano e scomparivano nei luoghi più impensati, erano dati per morti quando erano ancora vivi, si credeva che sarebbero tornati quando già le loro ossa imbiancavano lungo un sentiero o sotto un costone roccioso. Ma mentre di esse continua a proiettarsi la figura, è la luce su quello scacchiere proiettata, a essersi spenta. Come notò nel suo libro Hopkirk, nulla di quel disegno politico, costruito e perseguito per più di mezzo secolo, è rimasto in piedi. Archiviato per primo l'impero britannico, la disintegrazione post-Ottantanove in Asia della supremazia di Mosca ha portato alla nascita di otto Paesi con relative guerre che hanno sconvolto la regione. «L'Asia centrale è tornata a essere terreno di lotta nel grande calderone della storia». C'è un nuovo «Grande gioco» ha scritto Hopkirk, nel quale «è impossibile indovinare quale delle potenze e fazioni rivali si aggiudicherà la posta economica in palio». Stati Uniti, Russia, Cina e poi India, Turchia, Iran e Pakistan hanno preso il posto dei due contendenti di un tempo.
Per un breve momento, la prima metà all'incirca del Novecento, quell'interesse geopolitico sembrò potersi tramutare in passione artistica. Pochi libri hanno colpito l'immaginazione come La via per l'Oxiana, di Robert Byron, e pochi lamenti funebri per la scomparsa di un mondo equivalgono quello di Bruce Chatwin, Lamento per l'Afghanistan, appunto, scritto all'indomani dell'invasione sovietica del 1979: «Non torneranno in vita le cose che abbiamo amato. Le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti; i campi di asfodeli che venivano dopo quelli dei tulipani, o le pecore dalla grossa coda che chiazzavano le colline sopra Chageran... Non ci sdraieremo più davanti al Castello rosso a guardare gli avvoltoi roteanti sopra la valle in cui fu ucciso il nipote di Genghiz... Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamian, diritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio. Non dormiremo nelle tende dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam».
Ancora sul finire degli anni Sessanta l'Afghanistan significava raffinato splendore, nobile povertà, rose e fucili, camion e bazar, campagne di scavi e ottusità militare, ricerca del passato in luoghi dove il tempo sembrava essersi cristallizzato. Che cosa fosse andare in Afghanistan allora lo ha ben spiegato un archeologo italiano, Maurizio Tosi, a Nicholas Shakespeare, scrittore di talento nonché autore dell'unica biografia autorizzata di Bruce Chatwin: «Te ne stai in un paesaggio arido guardando una carovana nomade di cavalli e cammelli in marcia con greggi e mercanzie e dietro si innalzano le più meravigliose rovine di splendidi edifici eretti da re che governavano contadini e artigiani in grandi città».
Tosi è l'archeologo cui l'inglese Peter Levi ha dedicato Il giardino luminoso del re angelo (Einaudi). Di origine turco-ebraica, Levi andò in Afghanistan sulle orme di Alessandro Magno, e già questo la dice lunga sul personaggio e il perché di quel viaggio. Scrive Tosi che «cercare i greci in Afghanistan nella mente di un giovane don di Oxford, ebreo, cattolico e inglese, aveva un doppio effetto catalizzatore e il senso di un'esperienza iniziatica che da sempre i poeti d'Oriente e d'Europa hanno attribuito all'avventura di Alessandro». Il titolo del volume deriva dal mausoleo di Babur, a Kabul. È un giardino che domina il fiume: costruito in marmo di Kandahar, l'iscrizione che ne dominava l'ingresso diceva: «Solo una moschea di straordinaria bellezza, un tempio di sublime nobiltà, costruito per la preghiera dei santi e l'epifania dei cherubini, era degno di sorgere in questo giardino luminoso del re angelo prediletto da dio». È un bel titolo, degno di un poeta, più che di uno studioso.
Alla fine degli anni Novanta, ancora un inglese, Jason Elliot, con il suo Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan (Neri Pozza) riuscì a dare conto di una fascinazione ancora non spenta e lo fece in un momento particolare e surreale, quello di un Paese bombardato e liberato di cui l'Occidente non sapeva bene che fare, un regno del male bonificato senza che per questo il male fosse stato estirpato, una sorta di protettorato militare di cui si ignorava la durata. Eppure, pochi resoconti di viaggio hanno la freschezza e la grazia di questa peregrinazione dove l'imprudenza si tinge di impudenza, la voglia di capire non si trasforma in ansia di giudicare, l'ammirazione non cede all'imitazione. Elliot andò in Afghanistan a diciott'anni, ai tempi dell'invasione sovietica, quando i mujaheddin erano per l'Occidente l'icona del patriota in armi. Ci ritornò dieci anni dopo, quando molti di essi si chiamavano taliban e si apprestavano a divenire il bersaglio dell'esecrazione internazionale. Non si trattava di alieni, non venivano da Marte... Senza saperlo, Elliot si muoveva sulle tracce del presente in luoghi che non lasciavano intravvedere il futuro e il contrasto fra una quotidianità orgogliosamente perseguita e un domani capricciosamente negato colora Una luce inattesa della tinta struggente di una disillusa speranza.
Comunque la si voglia girare, la militarizzazione occidentale dell'Afghanistan si è sempre rivelata fallimentare. Lo ha spiegato molto bene William Dalrymple, nel suo Il ritorno di un re (Adelphi), dove sono messi molto bene in evidenza i parallelismi delle due successive disastrose intromissioni occidentali fra XIX e XX secolo: «Centosettant'anni dopo, le stesse rivalità tribali, le stesse battaglie negli stessi luoghi all'ombra di nuove bandiere, nuove ideologie e nuovi burattini. Le stesse città erano presidiate da truppe straniere che parlavano la stessa lingua e subivano attacchi dalle stesse colline circostanti e dagli stessi passi. In entrambi i casi, gli invasori pensavano di venire, cambiare il regime e andarsene in un paio d'anni. In entrambi i casi invece non sono riusciti a evitare di restare invischiati in un conflitto assai più ampio».
C'è però nel libro di Dalrymple un altro elemento non secondario, ovvero il ribaltamento dell'orientalismo di natura occidentale consistente nel raccontare con fonti proprie terre e costumi altrui. Sono le fonti afghane coeve che Dalrymple recupera... Così, come in un gioco di specchi, gli occidentali sono visti dagli altri e non secondo l'immagine spesso oleografica con cui hanno raccontato sé stessi. Le truppe inglesi si distinguono per crudeltà e lussuria, i romantici avventurieri cedono il passo a diabolici trafficoni, il «fronte interno» della resistenza afghana, descritto dalla memorialistica inglese come un insieme di traditori barbuti e fanatici, cede il passo a esseri umani dotati di una «loro sfera emotiva di opinioni, di motivazioni personali» che permette di capire «come mai molti di essi scelsero di rischiare la vita e imbracciare le armi contro le forze a prima vista invincibili della Compagnia delle Indie».
Un'antica leggenda afghana dice che «quando Allah ebbe fatto il resto del mondo vide che gli era rimasta una quantità di materiale di scarto, che non si adattava a nessun posto. Raccolse tutti questi residui e li gettò sulla terra. E quello fu l'Afghanistan». Come si vede il senso di precarietà e di estraneità è qualcosa di insito nell'animo di questo popolo. Se dovessimo alla fine consigliare un saggio non di ciò che è stato, ma dell'incredibile quanto inestricabile groviglio di contraddizioni che lo rappresenta, sceglieremmo Descent into Chaos di Ahmed Rashid, uscito una dozzina d'anni fa e pubblicato in Italia col titolo Caos Asia (Feltrinelli). Rashid predisse allora quello che oggi è sotto i nostri occhi. Si è sbagliato, scrisse, sin dall'inizio, a partire dalla cosiddetta «guerra al terrorismo», uno slogan retorico e generico, dello stesso tenore della guerra alla droga, al cancro, alla povertà.
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